La prospettiva antidemocratica

di on. Francesco Nucara

Nel cercare di trarre le conclusioni dei tre giorni di lavoro del nostro convegno, svoltosi recentemente a Milano presso il Circolo della Stampa ed intitolato “Valori liberali, quelli veri e quelli falsi”, debbo innanzitutto rivolgere un ringraziamento a tutti gli autorevoli esponenti del mondo scientifico, culturale, imprenditoriale, professionale e politico che hanno portato il loro contributo di idee e di proposte al nostro dibattito, aiutandoci a definire una posizione “liberale” sui grandi temi aperti della società italiana. Mi sarebbe difficile ricordare tutti, ma non posso non sottolineare l'impegno di Franco Debenedetti, che ci ha accompagnato lungo tutto il percorso di quella conferenza. Desidero, inoltre, dare atto del suo appassionato sforzo all'amico Riccardo Gallo, che ha coordinato i lavori per la definizione del “Manifesto liberale”, un primo e determinante passo sulla strada verso la Costituente liberaldemocratica europea che, in quell’iniziativa, abbiamo voluto indicare. Inoltre, è giusto ricordare l'impegno profuso dagli amici milanesi: De Angelis, Del Pennino ed Arosio, ma soprattutto desidero ringraziare il Vice – Segretario Camerucci. L’obiettivo è ambizioso: quello di superare la frammentazione che in questi cinquant'anni di vita democratica hanno conosciuto le forze della democrazia laica e riformatrice, che ha trovato un primo momento con il patto federativo sottoscritto dal Pri e dal Pli nella scorsa primavera. Quando il richiamo ai valori liberali è ormai diffuso tra quasi tutti i partiti, non possiamo non affermare con orgoglio che quella che Giorgio Amendola definì con una certa supponenza la “cultura dei vinti” si sia dimostrata, alla luce della storia, essere, invece, la “cultura vincente”. Se le forze liberaldemocratiche in Italia sono rimaste asfittiche lo dobbiamo alla cultura dominante di due forze illiberali: i clericali ed i comunisti. Ancora oggi i clericali sono variamente sparsi nei due schieramenti e abbiamo due partiti comunisti doc che hanno come riferimento Fidel Castro. E' anche vero che i cattolici sono cosa ben diversa dai clericali. Come la storia ci ha insegnato ci sono cattolici come Gallarati Scotti che sanno anche essere laici. “Andiamo avanti senza mostrare paura ma soprattutto senza averne”. Il futuro non può che darci ragione e non importa se saremo noi o le prossime generazioni a raccoglierne i frutti. E le indicazioni e le proposte della “cultura storicamente vincente” si rivelano sempre più come quelle che meglio possono offrire una soluzione complessiva dei problemi di governo di una società industriale avanzata come quella italiana. Tradizione ed innovazione: sta in questo binomio il senso più profondo della lunga transizione italiana. Abbiamo bisogno della nostra storia per ricordarci da dove veniamo. Ma non possiamo rimanere prigionieri di un passato che le grandi trasformazioni del mondo contemporaneo hanno consegnato al ricordo delle generazioni più anziane. La sfida, di fronte alla quale si trovano tutte le culture politiche, è quella di non perdere la propria identità, ma al tempo stesso di rinnovarne le forme ed i contenuti. Capita in Italia, dove le principali forze politiche hanno dovuto cambiare nomi, formule organizzative, simboli e punti di riferimento programmatico. Capita in Europa, dove il cambiamento è stato ancora più profondo, al punto da determinare la nascita di nuovi paesi, all'indomani del crollo del muro di Berlino e della storica sconfitta del dispotismo sovietico. Fenomeni di questa portata, dove il termine storico rischia d'essere riduttivo, non potevano non coinvolgere anche il più antico partito della storia italiana. Ecco allora che questo nostro convegno ha un valore fondativo. Marca un passaggio. Si sviluppa su un tronco antico, quello della tradizione repubblicana, per approdare verso quel nuovo mondo che, per molti versi, deve essere ancora pienamente compreso ed analizzato. Si tratta di fenomeni nuovi ed ancora non del tutto esplorati. Si pensi a quanto sta accadendo nella riorganizzazione dei mercati finanziari, dove la pur grande esperienza delle banche centrali fa fatica a dominare il presente. Oppure ai mutati equilibri planetari: l'emergere di nuove potenze, come la Cina o l'India, che rischia di ridimensionare il peso ed il ruolo di tutto l'Occidente. Mentre i venti di guerra ne lambiscono i confini. Occorre un grande salto culturale, capace di fornire nuove chiavi di lettura. Un rinnovato impegno nella ricerca delle soluzioni possibili, senza smarrire il senso di una più antica tradizione. E non per rimanere attaccati alla propria identità, ma perché in quella storia vi sono ancora gli strumenti che consentono, se correttamente utilizzati, di trovare le risposte giuste ai problemi del momento. E' un'operazione difficile. Ma queste difficoltà non hanno mai spaventato i repubblicani. Ne hanno, al contrario, sollecitato l'orgoglio ed il gusto per la sfida. Se così non fosse stato, non vi sarebbe stata quella tenace, per quanto solitaria battaglia, che portò all'apertura degli scambi, nell'immediato dopoguerra, in un momento così difficile e drammatico. Quando la maggioranza delle forze politiche e sociali italiane sembrava ancora tentata dalle lusinghe del protezionismo e dell'isolazionismo. Oggi tutti riconoscono che quelle scelte mutarono nel profondo le prospettive di sviluppo di un Paese distrutto dalla guerra, abbandonato dalle sue vecchie classi dirigenti, lasciato alla mercé degli eserciti stranieri. Un Paese vinto, ma non domo. Pronto a risorgere non appena un nuova classe dirigente ebbe la forza di indicargli la strada da seguire. Perché – come ci ha insegnato Ugo La Malfa – dobbiamo imparare qualcosa anche da Gramsci, che ha ricordato che “le idee sono grandi in quanto sono attribuibili, cioè in quanto rendono chiaro un rapporto reale che è immanente nella situazione (…) I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della ‘grande idea' lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il progetto reale di attuazione. Lo statista di classe intuisce simultaneamente l'idea e il processo reale di attuazione: compila il progetto e insieme il “regolamento” per l'esecuzione”. Fu un miracolo: non solo economico. Un popolo che rialzava la testa, che si rimboccava le maniche e con il sacrificio di milioni di cittadini riconquistava un posto tra le grandi democrazie occidentali, conquistando l'ammirazione di chi credeva, all'estero, che tutto fosse perduto. Un miracolo, appunto. Ma non uno scherzo del destino. Perché dietro quelle scelte c'erano valori antichi, in grado di fecondare il presente, per quanto drammatica fosse la situazione della Nazione. Allora l'innovazione politica e culturale ebbe un ruolo decisivo. Fu il motore che accese le speranze e l'impegno massiccio per riconquistare le posizioni perdute. I repubblicani fecero la loro parte nel progettare questo nuovo percorso. Furono in grado di esercitare questo ruolo perché seppero interpretare le pulsioni più profonde di una borghesia consapevole di sé e delle proprie contraddizioni. Sì: delle proprie contraddizioni. I repubblicani, infatti, non sono mai stati liberisti puri. Non lo sono stati e non lo saranno certo ora. I Repubblicani seppero in quel momento storico essere contemporaneamente, nel passato, nel presente e nel futuro. Non hanno mai creduto nelle facoltà salvifiche del mercato, che resta uno strumento potente, ma che non può essere abbandonato a se stesso. Un mercato non regolato, non fecondato dalla presenza attiva di uno Stato in grado di regolarlo nelle forme nuove imposte dal dinamismo dei processi storici, è destinato, inevitabilmente, a generare fenomeni di entropia. Di disordine strutturato, come mostra appunto la crisi dei mercati finanziari, alla quale ho fatto cenno poc'anzi. Non è quindi questa la prospettiva. Il problema di fondo è quello di governare le contraddizioni di una società complessa, come quella che è di fronte ai nostri occhi. Sciogliere i nodi relativi, con gradualità e razionalità. Senza avere la supponenza utopistica di eliminare queste contraddizioni dall'orizzonte temporale del presente. Chi ha tentato questa strada, come nell'esperienza del socialismo reale, non solo è stato sconfitto, ma quella sconfitta ha determinato un costo tremendo per il genere umano, tingendo di sangue e di sofferenze il secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Viviamo in una realtà contraddittoria, nella quale dobbiamo continuare a muoverci. Ma come? Le categorie del semplice liberismo non bastono più. L'approdo – questa è almeno l'indicazione del nostro convegno – non può che essere diverso. Il liberalismo al quale pensiamo è quello liberal-democratico. Dove il termine democratico riflette, in larga misura, l'esperienza e le novità culturali della migliore tradizione anglo-sassone. Ossia il tentativo di coniugare la difesa strenua dei diritti individuali di libertà con un'esigenza di partecipazione collettiva, tentativo che riflette uno dei postulati della società moderna. Libertà e partecipazione, diritti e doveri, aiuto ai più deboli e responsabilità personale, merito e bisogno, modernizzazione e recupero dei valori più antichi. Sono questi i binomi del lessico democratico, che fa germogliare il vecchio albero del liberalesimo. E' questo l'ambiente culturale che fa da sfondo a quel mondo borghese che ha ormai risolto in radice le vecchie contrapposizioni di classe, generando, tuttavia, nuove contraddizioni, nuovi bisogni e nuove povertà. Fatti individuali e determinanti di carattere sociale: tra questi due elementi non ci sarà contraddizione, se una buona politica sarà in grado di armonizzarne i profili. Un occhio attento alle condizioni del singolo, l'altro ai processi di sviluppo più complessivo. Vi è complementarietà tra questi due elementi. Lo sviluppo economico crea opportunità per il singolo, la presenza del quale è, tuttavia, indispensabile per realizzare gli obiettivi di carattere nazionale. Una presenza, si badi bene, che deve essere fattiva. Ricordando le parole di Alcide De Gasperi, occorre chiedersi cosa può fare lo Stato per il singolo cittadino. Ma anche domandarsi cosa può fare quest' ultimo per lo Stato. Coniugando i due termini del problema, sarà possibile raggiungere quella sintesi, che non risolve alla radice le contraddizioni della modernità, ma ne sposta in avanti i relativi equilibri. Si tratta di un processo non solo italiano, anzi: in Europa il suo sviluppo è ancora più avanzato. Lì i liberal-democratici sono una forza reale. Non sono forse ancora in grado di competere apertamente con le culture dominanti, quelle di matrice cattolica e socialista; tuttavia nell'organizzazione della Comunità occupano uno spazio destinato a crescere. Basti pensare a quello che accade nei paesi che si sono liberati da poco dal giogo comunista. Le difficoltà, naturalmente, non mancano, ma sono di natura diversa. Cristiani e socialisti, in Europa, sono più avanti nella loro contaminazione culturale con le idee ed i principi del liberalesimo. Si pensi solo ai laburisti di Tony Blair o ai cristiani di Angela Merkel. A differenza dell'Italia, il rispetto dei principi di libertà individuale e delle forme della democrazia, in quelle formazioni, è stato, storicamente, l'elemento di rottura che li ha caratterizzati rispetto all'ortodossia pansovietica. In Italia è diverso. Nell'attuale maggioranza vi sono ampie formazioni politiche che ancora si richiamano al comunismo. Altre che non hanno avuto il coraggio di una revisione critica reale. Cattolici, d'osservanza dossettiana, più attenti ai problemi del sociale che non a quelli delle libertà e delle responsabilità. Qui la contaminazione è fallita contro il muro di una rigidità ideologica, seppure a volte camuffata, che ha preservato vecchi valori e modi d'essere di quella tradizione. Lo spazio per far vivere valori autentici della tradizione liberale e democratica, in quei contenitori, è quindi più angusto. Minoranze illuminate che non pesano e non incidono. Dobbiamo sfondare quei muri. Per farlo è necessario che le forze liberal-democratiche escano allo scoperto. Si qualifichino come formazioni autonome per combattere dall'esterno e non dall'interno le forme di sopraffazione, morbide se si vuole, ma estremamente resistenti. L'Europa in questa sfida, come già avvenne nell'immediato dopoguerra, può aiutarci. Può rappresentare una sponda, nella costruzione di quella realtà sopranazionale che non può limitarsi solo all'economia ed alla finanza. Queste sono le ragioni, di carattere più generale, per le quali i rapporti con queste realtà dovranno divenire più intensi. Le ragioni per cui, con questo convegno, vogliamo aprire una fase nuova nella storia della politica italiana.
Malessere
Sappiamo di non essere soli. La presenza di esponenti dell'attuale maggioranza, a questo nostro convegno, lo dimostra. Abbiamo ascoltato i loro ragionamenti. Abbiamo colto i segni del loro malessere. Non così diversi, del resto, dai nostri. I valori che ci uniscono sono, in larga parte, comuni. Così come il desiderio di uscire dalle secche dell'attuale sistema politico. La nostra esortazione è quella ad andare avanti. Sia nel centrodestra che nel centrosinistra è necessario lottare per abbattere muri e steccati. Per far sì che quelle idee camminino sempre di più con le gambe degli uomini, in un accresciuto consenso. Da parte nostra faremo tutto il possibile per accelerare le necessarie convergenze, per sostenere un progetto ambizioso che sedimenti un comune sentire. Non siamo frettolosi, ma pazienti. Rispettiamo i tempi della politica e delle reciproche convinzioni. Non chiediamo ad alcuno scelte di schieramento, ma solo di non rinunciare alla lotta per l'affermazione delle proprie idee. Sulla cui difesa dobbiamo dimostrare determinazione ed intransigenza. Il resto verrà, quando i tempi saranno maturi. Quando nelle coscienze sarà cresciuta la voglia non solo “del dire”, ma anche “del fare”. Siamo fiduciosi. Abbiamo aspettato tanto, ma alla fine il muro dell'ideologia illiberale è crollato: tanto a destra, quanto a sinistra. Non aspetteremo altrettanto. I tempi si sono accorciati. La globalizzazione spinge verso fenomeni di omologazione. I comunisti italiani possono ancora resistere, sognando Fidel Castro, ma è un incubo inconsapevole destinato a sciogliersi alle prime luci del giorno. Andiamo, quindi, avanti sulla strada che questo convegno ha tracciato. Abbiamo dedicato quattro sessioni dei nostri lavori all'approfondimento dei temi che devono caratterizzare una piattaforma programmatica originale, per definire le linee di un manifesto liberale che non pretende di essere esaustivo, ma di rappresentare una base su cui cercare di costruire un impegno comune.
Forze laiche
Non vi è chi non colga, in proposito, come certe acquisizioni dei nostri valori da parte delle maggiori forze politiche siano il frutto dello stimolo critico, delle puntuali e serrate polemiche svolte in tutti questi anni da parte delle forze di ispirazione laica. Ma, malgrado le trasformazioni intervenute, nelle forze che fanno parte dei due grandi schieramenti che contrassegnano la vita politica italiana permane un tipo di approccio ai problemi complessivi del Paese in cui non è preminente la preoccupazione di interpretare gli “interessi generali”, ma piuttosto la tendenza a concepire gli strumenti di governo come mezzi attraverso i quali aggregare il consenso. La risposta ad interessi settoriali, di categoria o puramente localistici, come strada attraverso la quale organizzare la raccolta delle adesioni elettorali resta un difetto assai diffuso. Dicendo questo, non voglio equiparare – come spiegherò, a breve – i due schieramenti che si contrappongono nella vita politica italiana, ma sottolineare l'esigenza di un maggior ruolo e di una più incisiva presenza delle forze che della tradizione repubblicana, liberale e radicale sono eredi ed interpreti. Ma per ciò – ecco il senso del nostro odierno convegno – è necessaria una ricomposizione della diaspora laica. Nella consapevolezza che solo il recupero di un'unità tra le diverse forze, che dialetticamente ed anche con collocazioni politiche contrapposte, hanno rappresentato le articolazioni attraverso le quali si è sviluppata la presenza liberal-democratica nella vita politica e nella storia del Paese, e la riconduzione ad un loro momento di sintesi, possono offrire la piattaforma per il loro rilancio e la loro capacità di influire sulle scelte delle forze egemoni dei due schieramenti. E non a caso abbiamo collocato l'obiettivo della Costituente liberal-democratica in una prospettiva europea. E lo abbiamo fatto richiamandoci all'Eldr. Negli altri Paesi europei esiste, infatti, un'articolazione politica tripolare (o quadripolare) in cui una forte componente liberal-democratica esercita ruolo ed influenza, accanto ai due grandi schieramenti, a quello conservatore, ex democristiano, oggi ribattezzato “popolare”, e a quello social-democratico; e vi è poi, in alcune Nazioni, una componente di sinistra alternativa. Ognuno con una sua precisa fisionomia. E le composizioni delle maggioranze e dei Governi sono il frutto degli accordi tra queste forze nella loro autonomia. In Italia, invece, l'improvvisato bipolarismo, imposto da un sistema elettorale maggioritario, calato in un contesto di forze politiche non omogenee tra loro, ha imposto alle forze liberal-democratiche di trovare benevola accoglienza in uno dei due schieramenti senza possibilità di esercitare alcuna reale influenza sugli stessi, se non quella di sollecitare le componenti “liberal” dei maggiori partiti (Forza Italia da un lato, l'Ulivo, oggi Partito Democratico, dall'altro). Questo ha determinato diverse scelte di collocazione dei liberal-democratici.
Voci inascoltate
Non a caso venerdì hanno parlato qui esponenti politici del centro-destra, altri del centro-sinistra, con accenti eguali, ma le cui voci restano spesso – o addirittura quasi sempre – inascoltate negli schieramenti di appartenenza. Collocare la ricomposizione nella prospettiva europea non significa solo scegliere un terreno su cui abbiamo forti riferimenti esterni, ma cogliere l'occasione offerta da una legge elettorale rigorosamente proporzionale per trovare un punto comune di riferimento in cui l'autonomia di tutti i liberal-democratici si può affermare prescindendo dalla contingente appartenenza odierna ad uno dei due schieramenti nazionali. Certo mentirei a me stesso prima che a voi se non dicessi che questa prova deve essere solo il punto di partenza per una più stretta intesa anche sul piano politico italiano. Ma credo non si possa pensare di gettare il cuore oltre l'ostacolo, se prima non si è misurata l'altezza dell'ostacolo. E sul piano nazionale di ostacoli ne esistono almeno due. Il primo è la legge elettorale, il secondo la nostra capacità di aggregare consenso. Sulla legge elettorale devo ribadire una mia radicata convinzione. La valutazione di un sistema elettorale non può rapportarsi al fatto che esso sia in grado o meno di realizzare una democrazia dell'alternanza, quanto piuttosto alle sue capacità di garantire sia un'effettiva governabilità sia la possibilità di espressione delle diverse realtà culturali e sociali presenti nel Paese. Una legge elettorale come la nostra, che costringe all'inseguimento del voto marginale ed impone quindi coalizioni eterogenee, che poi non sono in grado di assicurare una reale capacità di governare, ma dànno vita solo a maggioranze rissose incapaci di guidare lo sviluppo economico e sociale del Paese, non serve.
Legge elettorale
Oggi molto si parla della necessità di realizzare un bipolarismo “flessibile” rispetto all'attuale realtà di un bipolarismo “rigido”. Da questo punto di vista credo che non si possa eludere il problema della legge elettorale. Non so quanto durerà questa legislatura e se sarà essa ad affrontare l'argomento. Ma questo è un tema che non può sfuggire alla nostra comune riflessione. E se l'orientamento prevalente fosse quello di mantenere il premio di maggioranza per la coalizione vincente, dovremo batterci perché non venga stabilita alcuna forma di sbarramento. E ciò non solo per consentire un diritto di tribuna alle diverse espressioni politiche e sociali che sono radicate nella realtà italiana, ma anche perché, una volta garantita la cosiddetta, ripeto, cosiddetta, governabilità col premio di maggioranza, non ha senso imporre la scelta dell'esclusione della rappresentanza parlamentare, a chi del premio di maggioranza non voglia usufruire, ma desideri mantenere la propria individualità. Ma al di là del problema rappresentato dalla legge elettorale vi è il discorso della nostra capacità di aggregare un consenso che vada al di là delle tradizionali appartenenze di partito e dal richiamo ai meriti del passato. Questi ultimi sono assai importanti. Ma non basta dire: noi l'avevamo detto. Occorre dire quello che faremo, cosa proponiamo, quale prospettiva indichiamo per la società italiana e soprattutto per le giovani generazioni. Non voglio entrare nei dettagli, ma mi preme sottolineare almeno alcuni punti. Se il problema di fondo dell'economia italiana è rappresentato dal peso del debito pubblico accumulatosi in questi anni e dalla continua crescita della pressione fiscale che grava sulle imprese non meno che sui bilanci delle famiglie, è indispensabile una vera politica di tagli della spesa pubblica corrente, incidendo sulle grandi voci degli esborsi per il personale, delle prestazioni sociali e dei trasferimenti agli enti locali. Solo operando su queste voci in modo non marginale sarà possibile rimettere ordine nei nostri conti pubblici e rendere possibile una concreta riduzione della pressione fiscale. Ma per questo è necessario non piegarsi alle rivendicazioni settoriali e localistiche e respingere richieste che, nel nome del “sociale”, compromettono ogni sforzo di risanamento. Occorre saper resistere alle richieste provenienti dal settore del pubblico impiego anche se lo stesso rappresenta un consistente bacino elettorale. Occorre – a differenza di quanto ha fatto l'attuale governo – prendere atto che, con l'aumento delle aspettative di vita, non è pensabile che il nostro sistema previdenziale regga senza un consistente aumento dell'età pensionabile, come è avvenuto o sta avvenendo negli altri Paesi europei. Occorre abbandonare la retorica pseudo-federalista e prendere atto che oggi le amministrazioni periferiche sono libere nella spesa, ma non sono responsabili nel reperimento delle risorse che dovrebbero finanziarla. Questo provoca sperperi e sprechi. Alimenta le clientele e non migliora i servizi resi ai cittadini. Oltre a ciò nel sistema dei poteri locali perdura la sovrapposizione di diversi sistemi di governo, con moltiplicazione della spesa per il ceto politico. Bisogna in questo settore avere il coraggio di voltare decisamente pagina, da un lato con la realizzazione di un vero federalismo fiscale che responsabilizzi le amministrazioni regionali e locali, riducendo al minimo i trasferimenti erariali, dall'altro con una rigorosa semplificazione dei livelli di governo locale. A questo proposito l'amico Del Pennino ha presentato due emendamenti alla legge finanziaria al Senato per l'abolizione delle Comunità montane e dei Consigli di circoscrizione nei Comuni con popolazione inferiore a 300.000 abitanti. Ritengo, per parte mia, di dover presentare al più presto alla Camera, e sono certo che gli amici Capezzone e Della Vedova converranno, una proposta di legge costituzionale per l'abolizione delle Province.
Rigore
Mi rendo conto che muoversi in queste direzioni può voler dire andare in controtendenza, determinare le reazioni di quanti potranno ritenersi penalizzati, ma sono convinto che in un Paese maturo, qual è oggi il nostro, una piattaforma di rigore che rifiuti i compromessi e non indulga alle contingenti e contraddittorie pressioni, se adeguatamente illustrata, può incontrare quei consensi di cui abbiamo bisogno per dare vita a una grande forza liberal-democratica. Il problema centrale dell'economia nazionale resta, in ogni caso, quello della crescita e dello sviluppo. Questo obiettivo deve divenire la priorità assoluta della politica economica e dell'impegno collettivo. Nelle mutate condizioni dell'economia mondiale, si fa sviluppo solo se tutti gli attori – dalle Istituzioni alle forze sociali – finalizzano a questo i loro sforzi principali. Lo Stato, come abbiamo già detto, deve comprimere la spesa corrente per ridurre la pressione fiscale e realizzare i necessari investimenti nelle indispensabili infrastrutture. Non è un obiettivo impossibile. I contribuenti italiani hanno versato al fisco più del richiesto e del dovuto. La delusione è stata quella di vedere che a questi sforzi ha corrisposto solo un aumento della spesa corrente e di quella improduttiva. In questa prospettiva voglio fare un accenno ad altri due argomenti che sono stati affrontati nelle sessioni tematiche di sabato: quelli relativi alla libertà di ricerca e alle questioni istituzionali, con particolare riferimento ai costi della politica. Il tema della libertà della ricerca è particolarmente caro a chi rappresenta, come noi, le istanze laiche e respinge ogni tentativo di porre limiti alla ricerca scientifica, in nome di scelte ideologiche. Ciò non vuol dire ignorare i rapporti tra etica e scienza. Significa semplicemente che non si deve avere paura della scienza e delle scoperte scientifiche e invocare in modo distorto il principio di precauzione per imporre un limite a ricerche che sono finalizzate al bene dell'umanità. Per questo ci siamo battuti contro la legge 40 sulla procreazione assistita, per questo difendiamo la ricerca sugli OGM contro la quale si è creato un curioso fronte che va da Alemanno a Pecoraro Scanio (ecco un esempio delle contraddizioni presenti sia nel centro-destra che nel centro-sinistra), per questo abbiamo difeso e difendiamo l'utilizzo dell'energia nucleare. Rifiutiamo il fondamentalismo verde, ma siamo altrettanto se non più preoccupati dalle pressioni vaticane. Per tale motivo mi auguro siano prive di fondamento le notizie di stampa delle scorse settimane che descrivono l'amico Presidente Berlusconi attento a studiare i documenti di Oltre-Tevere (che riguardavano la sentenza del giudice di Cagliari che ha consentito ad una coppia sarda di fare la diagnosi preimpianto e quella della Cassazione sul caso Englaro) al fine di sollevare, attraverso una delibera del Senato, un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta per queste due sentenze.
Costi della politica
Non ci uniamo al “crucifige” di quanti, con atteggiamenti guitteschi, o con “scoop” giornalistici, tendono a delegittimare l'intero sistema politico. Non sappiamo, infatti, cosa c'è dietro l'angolo di queste campagne, che troppo ricordano gli attacchi al “parlamentarismo imbelle” ante '22. Né ci dimentichiamo gli eccessi di “Mani Pulite”: non a caso oggi Di Pietro cavalca la tigre dell'antipolitica. Ma sappiamo che molto va cambiato nel nostro sistema politico, ma con raziocinio e senza furore. Cominciando, come ricordavo prima, da una semplificazione del sistema dei poteri locali. Modificando, ma in modo non improvvisato, come avviene nel testo approvato dalla Commissione affari costituzionali della Camera, il nostro bicameralismo perfetto. Riducendo il numero dei parlamentari e dei componenti del Governo. Stabilendo una rigorosa differenziazione tra le competenze del potere politico e quelle degli organi burocratici e amministrativi. Riducendo l'intervento pubblico nell'economia, incominciando da una vera liberalizzazione dei servizi pubblici locali attraverso il ricorso generalizzato a procedure competitive ad evidenza pubblica. Modificando la composizione del CSM per battere le tendenze presenti nella magistratura a chiudersi in una logica corporativa. Per finire con una regolamentazione giuridica dei partiti, con una consistente riduzione del finanziamento pubblico e con l'incentivazione delle forme di finanziamento volontario. Ecco amici, queste sono le prime indicazioni per definire una piattaforma di incontro, tra le disperse forze liberal-democratiche, che ritengo di dover trarre da queste nostre giornate di dibattito. So che siamo solo all'inizio, che è un percorso che dovrà essere completato e arricchito, ma credo che sia questo l'inizio opportuno. Mi sottrarrei però al mio compito se ritenessi sufficiente indicare l'obiettivo delle elezioni europee e la prospettiva futura di avere un'autonoma forza liberal-democratica nel nostro Paese e non mi soffermassi sulle più vicine scadenze cui possiamo essere chiamati. La condizione del Governo e della maggioranza è infatti pre-comatosa e diversi fattori lasciano credere che il Paese potrà essere chiamato alle urne per il rinnovo delle Camere prima della scadenza europea. E, se così fosse, alle urne andremmo con questa legge elettorale che impone di necessità una scelta di schieramento. Ora so – vi ho accennato anche prima – che, se un'opzione di schieramento deve essere fatta, non esiste tra quanti hanno partecipato ai nostri lavori un comune sentire. Creeremo le premesse per il nostro futuro specifico ruolo, al di là dell'attuale bipolarismo ingessato. Voglio chiudere citando queste parole di Adolfo Omodeo pronunciate in un discorso del 1944 : “Il liberalismo che pareva spegnersi vent'anni fa, contro cui Mussolini ed i suoi servi lanciavano sprezzanti ingiurie, risorge battagliero, con un'animazione che si genera dalla sua coscienza religiosa… Ha conseguito un dinamismo nuovo perché nella trasformazione, già accennata, la fede del Cavour si è arricchita di fermenti 'mazziniani'… Il motivo cavouriano del progresso e delle riforme è venuto a coincidere con l'anelito missionario del Mazzini. Il quale irrideva la libertà quietistica, la formula ‘libertà per chi la possiede' e propendeva per quella forma missionaria, che noi possiamo definire della ‘libertà liberatrice. Noi abbiamo appreso con durissime esperienze che la libertà si mantiene solo espandendosi, ampliando la cerchia dei liberi, combattendo una lotta perenne contro tutte le servitù”. Libertà liberatrice dai bisogni, nell'economia, nella laicità individuale e collettiva, nella scienza, nella scuola, nella politica, dal Vaticano. Libertà liberatrice dell'anima repubblicana. Cento anni per la Repubblica, molto meno per l'Europa. Sempre protagonisti dei percorsi della Storia.(Laici.it)

Deputato alla Camera del Gruppo parlamentare dei Repubblicani, Liberali e Riformatori
(intervento tratto dal convegno “Valori liberali: quelli veri e quelli falsi”, Milano – Circolo della Stampa 26/28 ottobre 2007)

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