La relazione dell’on. Khaled Fouad Allam sull’Afganistan

Alla camera in occasione della discussione sul rifinanziamento della missione in Afganistan pronunciata alla Camera il giorno 17 luglio 2006

«La questione afgana, va ben oltre la peculiarità di quell’angolo di mondo, delle sue caratteristiche etniche, culturali e geografiche. Perché esiste una grande questione afgana, che sarà il banco di prova su cui si giocheranno i destini del mondo»

La relazione dell’on. Khaled Fouad Allam pronunciata alla camera il giorno 17/07/06, è un’analisi ragionevole oltre che opportuna su una questione di politica internazionale spinosa e grave quale quella dell’Afganistan. L’on. Allam è esperto di islam nonché di problematiche connesse all’Oriente del mondo. Purtroppo, durante il suo pronunciamento, l’aula era pressoché vuota. E’, in ogni caso, un’occasione perduta. Sarebbe stato utile ascoltare la semplicità di una analisi fredda ed appassionata allo stesso tempo da una fonte competente studiosa di quelle realtà difficili da decifrare e da comprendere. Egli azzarda una ipotesi definitiva: “l’Afganistan quale grande questione che ha segnato e segnerà il nostro ingresso nel post guerra fredda”. Le ragioni dei suoi assunti, sono spiegati in maniera telegrafica e sintetica come impongono i tempi d’aula. Sarebbe stato molto più interessante un approfondimento capillare su ogni punto. Il pericolo, quindi, secondo Allam, è “il terrorismo di matrice islamica che potrà arrivare addirittura a ritmare la cadenza del mondo”. E stando alla lucidità dell’affermazione, c’è da credergli. Secondo Allam. L’Afganistan sarà addirittura “il banco di prova su cui si giocheranno i destini del mondo”.
La considerazione “tangente” al discorso dell’on. Allan, mette in rilievo una prassi parlamentare che sbigottisce lo spettatore, cioè quella di non riconoscere, oppure, non dare rilievo ed importanza alle cognizioni del relatore di turno. Ci saremmo aspettati una più folta presenza in aula quando a parlare sarebbe stato un parlamentare che, non solo conosce l’arabo, la “tradizione” orientale e l’Islam argomenti ostici per noi occidentali lontani e riluttanti, ma continua ad osservarli e a studiarli da venti anni. Ma tant’è, nell’emiciclo, quanti vi stanziano, si sentono capaci di poter fare e rispondere su qualsiasi questione anche se la ignorano. Si tratta di una specie di battesimo miracoloso dove, con la proclamazione a deputato, assieme al peccato originale, scompaiono deficienze e lacune di ogni genere.

s.v.

di
Khaled Fouad Allam

«Onorevoli colleghi, Onorevole Presidente della Camera,
vi sono certo diverse letture della questione afgana e della nostra missione in Afganistan. Non mi soffermo sul fatto che dobbiamo rispettare i nostri impegni internazionali, e sul fatto che un Paese come il nostro deve sapersi definire nella complessità del mondo odierno, evitando le tentazioni pericolose di un isolazionismo che si fonda su una filosofia del rifiuto di qualunque intervento. Ma io che vi parlo, studio da quasi venti anni la questione del radicalismo nell’Islam contemporaneo, e ho vissuto le prime fasi del fondamentalismo nell’Algeria d’inizio anni ’80. Mi sento dunque emotivamente, oltre che politicamente, coinvolto in questa vicenda.
La questione afgana, va ben oltre la peculiarità di quell’angolo di mondo, delle sue caratteristiche etniche, culturali e geografiche. Perché esiste una grande questione afgana, che sarà il banco di prova su cui si giocheranno i destini del mondo. E ciò perché il mondo del post 11 settembre è nato proprio lì, e perché è lì che il radicalismo islamico ha sperimentato la sua veste politica, vale a dire tolitarismo del XXI secolo. Vorrei ricordare che l’occupazione talebana aveva sostituito la dicitura “stato afgano” con la parola “emirato”. Non ho nulla contro gli emirati, ma quella sostituzione lessicale mostra chiaramente come i talebani opponessero due ordini politici: il loro fondato su una interpretazione iper-rigorista della shari’a, e quello di uno stato fondato sulla libertà e la democrazia. E il lessico arabo non è privo della nozione di stato: la parola “stato” esiste -“dawla”- ma essi, giocando su un cambiamento del linguaggio politico, definivano in realtà la loro rappresentazione del mondo. Un mondo chiuso in sé stesso, un mondo senza sorriso, un mondo che si autodefinisce virtuoso; e vorrei ricordate che sotto l’occupazione talebana il ministero della Cultura fu sostituito da un Ministero delle Virtù. Abbiamo visto in seguito in che cosa consistesse la virtù talebana: un totalitarismo improntato ad un Islam che dimentica totalmente l’uomo, su una rigidità comportamentale, individuale e collettiva, che non aveva nulla da invidiare a quel totalitarismo sovietico così ben descritto da Solgenitsin. Oggi esiste dunque una grande questione afgana; ed esiste una linea di confine politica, geopolitica, ed ovviamente culturale fra i difensori della libertà e coloro che la negano. L’Afganistan ha segnato e segnerà il nostro ingresso nel post-guerra fredda e so bene che tale ingresso è segnato dall’irruzione di una violenza inedita, violenza che troppo spesso colpisce le popolazioni civili. Ma proprio perché quella violenza sta segnando la storia, è dovere di uno stato che ha firmato degli accordi internazionali fare di tutto per impedire che l’Afganistan sia inghiottito da quella violenza. Che cosa vogliono ottenere i talebani con la loro strategia? Intendono conquistare il monopolio della violenza per inghiottire quello stato e farne un ponte verso altre entità, come la Somalia e altre aree, dove il terrorismo di matrice islamica potrà ritmare la cadenza del mondo, dove tenterà di uccidere la libertà, sostituendo l’ordine mondiale con la tirannia devastante della loro ideologia. La questione afgana mondiale con la tirannia devastante della loro ideologia. La questione afgana è la grande questione della nostra epoca: e vorrei ricordare qui, in quest’aula, per chi le avesse dimenticate, le tragiche immagini dello stadio di Kabul, i riti di morte collettivi, le donne lapidate e l’immagine che ha girato il mondo, quella della donna di cui non vedremo mai il volto, fucilata a bruciapelo come si abbattono gli animali. E se dovessi votare questa legge per la missione in Afganistan per salvare anche solo una donna, solo un uomo, solo un bambino, lo farei, cari colleghi. Io non ho nessun dubbio; e non amo la guerra. Ma fra l’oppressione e la tirannia e la libertà scelgo la libertà e chi aiuta a farla crescere, a conquistarla, a proteggerla. Non vi parlo nemmeno delle strategie dei talebani, in maggioranza appartenenti alla tribù dei Pashtum, in cui è presente il sogno di riunire i dodici milioni di Pashtum divisi fra Pakistan ed Afganistan. Non vi parlo del traffico internazionale della droga di cui i talebani si sono fatti maestri. Insisto unicamente sui destini della libertà, sul pericolo che incombe sul mondo e sul ruolo e la responsabilità che la comunità internazionale ha di fronte a chi, volendo instaurare un nuovo totalitarismo, minaccia anche il difficile tentativo del mondo musulmano – un mondo in totale crisi – di costruire il suo spazio democratico, di tentare un approccio alla libertà ed alla convivenza civile».

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