Piedigrotta, una festa della Napoli esoterica e pagana: canta, zompa e votta (S. Viviani)

Il rito orgiastico ebbe inizio l’8 settembre 1353 quando la Madonna rivelò ai napoletani il luogo in cui era seppellita una sua immagine. Lì doveva essere innalzata una Chiesa

Poeti ed intellettuali sono stati affascinati dalla fasta di Piedigrotta. Tra i sacro ed il profano, si è perpretata una tradizione popolare che ebbe, durante il regno borbonico, momenti di grande fulgore

«Chi tene a mugliera, si a porta stasera se po’ ntussecà» (chi ha moglie e la porta con sé stasera, si rovinerà la serata) si cantava la sera del 7 settembre alla festa di Piedigrotta.

La genesi stessa della festa è un mito. Si narra che la Madonna rivelò il luogo in cui voleva si costruisse un santuario in suo onore. La leggenda vuole che, a tre devoti, in sogno, la notte dell’8 settembre 1353, la Madonna indicò il luogo con una precisa indicazione: sarebbe stata disseppellita una sua immagine. Cos’ fu! Infatti, durante gli scavi fu ritrovata una statuetta di legno.

Piè di grotta, in realtà, era una località così denominata a causa di un passaggio lungo 700 metri che collegava Mergellina a Pozzuoli, nelle ci profondità, a pertire dall’età romana, si perpetravano riti orgiastici in onore del dio Priapo. Qui si consumavano riti profani e feste orgiastiche anticipati da sacerdotesse danzanti. Priapo era il protettore delle “scappatelle”, della lussuria ed, in un delirio generale, si raggiungevano livelli di gioia e di piacere che coinvolgevano tutti i partecipanti.

La Chiesa fu costruita nel 1353, restaurata da Ferdinando di Borbone 100 anni più tardi con sontuose rifiniture marmoree. Furono proprio i Borboni a preoccuparsi della mobilitazione popolare che si aveva nel giorno di Piedigrotta. Quella forza di aggregazione generale, avrebbe potuto aiutare il popolo ad avere la consapevolezza della propria identità e di una insperata capacità di ribellione al sovrano. Essi allora, in segno del loro potere ed anche del mal celato timore si insurrezioni, portarono alla festa i militari in parata. In questo modo il messaggio del controllo e delle forza per fare da deterrente ad ogni eventuale bollente spirito del popolo. I corpi di guardia, i reggimenti artiglieria e cavalleria venivano schierati in parata il giorno delle festa di Piedigrotta con lo scopo ufficiale di onorare, in questo modo, la Madonna mentre invece si voleva ribadire che fosse a comandare mostrando i muscoli.

Dopo i Borboni, questa consuetudine militare sparì. Lo sberleffo del napoletano, però, tipico anche oggi di un modo canzonatorio di interpretare la vita, non mancò di prendere in giro questi militari bardati di tutto punto con divise sgargianti che si prestavano allo sfottò. Per i napoletani, gli svizzeri, soldati di ventura mercenari, cos’ combinati, venivano denominati dei “Titò”.

Si racconta che anche Giuseppe Garibaldi, nel 1860, si fosse recato alla festa della Madonna di Piedigrotte, tanto questa era rinomata.

Dopo un periodo di sospensione, la tradizione fu ripresa nel 1876 con una nuova verve, nuove invenzioni tra cui i coppoloni, copettoni e lampiocelli, cotruttori di Tofe ed i famosi mast è festa, artigiani abili nella costruzione di carri allegorici, ruote, luminarie e ruoti di paccheri imbottiti.

La festa di Piedigrotta durava due giorni, il 7 settembre il rito pagano ed orgiastico dedicava a Priapo le sua attenzioni, l’8 il giorno della Madonna.

Alla festa la confusione regnava sovrana in una “ammuina” (caos) fatale che, tra danze, balli e canzoni, estenuava i partecipanti e che face dire a Salvatore Viviani: «E chisto è Papule, ca tene cante e suona; nun magna pe’ fa e canzone, nun dorme pe’ s’e cantà». Venivano usati strumenti di ogni genere e dimensione strumenti che ancora oggi fanno parte integrante della tradizione strumentale popolare. Questi aggeggi, perché aggeggio può essere definito lo “zerre zerre” per esempio che era formato da improbabili componenti: un giocattolo di legno tenuto su una ruota dentata che ruotando, urtava una linguetta e produceva un suono simile ad una scricchiolamento; il “triccaballacche” formato da tre bastoni di legno con una centrale fisso e quelli laterali semoventi con dei sonagli sulla punta; il “putitù” costituito da una cannuccia ficcata in un foro di pelle di un tamburo piazzata sui bordi di una pentola di terracotta; lo “scetavajasse” un legno intagliato contro cui, sfregando con una mozzarella, si stimolavano dei piattelli di stagnola che tintinnavano; la “tofa” grossa conchiglia di mare da cui si ricavava un suono lungo.

Piedigrotta fu un teatro sul cui palcoscenico Napoli ebbe l’opportunità di offrire la sua canzone al mondo intero. Cantanti di tutte le estrazioni si proposero da quella finestra. = sole mio, per esempio, in fine 800, conobbe la popolarità che l’ha resa famosa nel mondo, proprio alla festa di Piedigrotta. Lautore, Eduardo Di Capua, insieme a Giovanni Capurro autore delle parole, cedettero i diritti della canzone ad un editore, un certo Ferdinando Biteri organizzatore della festa. Gli autori morirono poverissimi e senza un soldo. Giovanni Capurro, paroliere di rango, fu premiato con una spilla di diamanti dal re Umberto I di Savoia in occasione della nascita di suo figlio per aver composto una canzone in onore dell’evento “O figlio d’o Rre”. Il prezioso regalo fu appuntato da Capurro, sul mantello delle Madonna di Piedigrotta a testimonianza dell’animo dell’artista e della mancanza assoluta di interesse per il denaro.

La festa di Piedigrotta si svolgeva in un tripudio di gente, bancarelle di lupini, cocchi e fighi d’india, torroni e birra, ma ruzze ed alche, ostriche, vongole, cozze, capitoni e trippa. I carri di cartapesta passavano in fila annunciati da coriandoli, stelle filanti e botti, i famosi “tricche tracche”. Si dice che qui sia stao inventato il Carnevale.

I baccanali in onore di Priapo, diventavano l’apoteosi della partecipazione popolare nella grotta di Pozzuoli. Il 7 settembre sembrava tutto concesso nella confusione e nell’abbandono dei suoni e del vorticoso ed estenuante saltellio della Tarantella, delle percussioni, dei tamburi e tamburelli con la pesca del coppo. Il coppo era una specie di secchio capovolto legato ad una corda e la cima di questa sulla punta di un bastone per poterlo calare dall’alto sulla testa dei passanti. Era una specie di pesca di teste, belle teste pettinate o incappellate, una specie di forca caudina alla quale i malcapitati dovevano sottostare di buob grado.

Insomma, tutte le componenti necessarie ad alimentare il caos e la confusione, erano presenti alla festa tanto che Carlo Del Balzo, in un suo libro “Napoli ed i napoletani” affermò: «Pare che questa sia l’ultima notte che a Napoli si debba godere la vita», oppure per bocca dell’intellettuale Filippo Martinetti sentire: «Non vidi mai, altrove che a Piedigrotta, un più meravigliose incendio di gaiezza, di spirito e di ingegno diffuso».

Il delirio collettivo raggiungeva il suo massimo orgiastico nei fuochi pirotecnici, nelle luci colorate dei botti e dei bengala.

Oggi, molti auspicano un ritorno di questa tradizione popolare armai desueta. I napoletani trovano che questa possa essere una occasione per aggregare e promuovere anche il turismo. Avremo ancora la festa di Piedigrotta, la festa dove « l’ammore dura na nuttata?».

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