Giornata di studio a cento anni dalla prima edizione del Dizionario moderno di Alfredo Panzini.
Accademia dei Lincei, 20 maggio 2005 Palazzo Corsini, via della Lungara n. 10 ROMA
L’Accademia dei Lincei ha ospitato, venerdì 20 maggio, un Convegno a cento anni dalla prima edizione del Dizionario moderno (Hoepli 1905) di Alfredo Panzini (1863-1939) autore di saggi e romanzi, allievo di Carducci a Bologna, dal 1929 accademico d’Italia. Al secondo piano di Palazzo Corsini, i lavori sono stati aperti da Tullio Gregory, direttore dell’Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee-Cnr, a presiedere, il Presidente delle Crusca Francesco Sabatini. Tra i relatori il prof. Tullio De Mauro, Vittorio Coletti, Giovanni Adamo e Valeria Della Valle.
La creazione di parole sempre nuove, mette in crisi, spesso, gli studiosi che sono preposti a studiare l’opportunità o meno della codifica in vocabolario. La tendenza, sembra scontentare i puristi delle lingua italiana che si chiudono all’acquisizione di parole nuove che possano mortificarne la tradizione scatenando, a volte, forti ripulse. Sta di fatto che il linguaggio si arricchisce ogni giorno di neologismi. Il prof. Tullio de Mauro ha citato un grande studioso, Luigi Piccinato che, quando doveva dare lezioni sui suoli agricoli e suoli urbani, soleva dire: «tutte le città nascono in campagna», allo stesso modo, si potrebbe dire che «tutte le parole nascono come neologismi». In una intervita rilasciata all’Unità, per esempio, Andrea Camilleri ha parlato di “paesanottismo” per dire qualcosa di più offensivo che non fosse il semplice “provincialismo”. Ma è solo uno dei tanti: “peterpaneggiare” (comportarsi come Flavia Vento – Fatema Mernissi), “riciclandia”(Comune virtuale destinato allo smaltimento – Italia nostra, n. 409), “cosmocrati” (classe di ricchi su scala mondiale), “rifofare”(rifondare il mondo – Arcangelo- Einaudi). Il pericolo, però, ha detto Francesco Sabatini, è cadere nell’”occasionalismo”, cioè abbandonarsi ad un uso indiscriminato, nel tempo, di un neologismo valido solo nel momento in cui viene creato ma che subito dopo muore. “Trapattonizzare”, è uno di quei neologismi che sono morti nel momento in cui sono stati coniati e, che a distanza di giorni, non si ricordava più nemmeno il perché.
Allo stesso modo, si verificano di frequente anche “riusi”, ritorno di neologismi risalenti ad altre epoche e per lunghi periodi abbandonati perchè obsoleti. Per esempio: “soprassessorio”. Neologismo dichiarato morto ma che da qualche anno viene usato da un componente del Consiglio di Stato incaricato di stendere le sentenze. Assente da ogni vocabolario, a ben guardare, esisteva quale neologismo ad uso, probabilmente, di paglietta napoletani nella tradizione giuridica partenopea dei secoli addietro. In luogo di: “provvedimento fuori tempo” o di “sentenza giunta tardi”, il giurista ha usato “provvedimento soprassessorio” derivante da soprassedere e da qui si comprende poi il significato.
Abbiamo chiesto al preof. Tullio De Mauro:
Professore, i neologismi italiani quanto prendono ancora dal greco antico e moderno, ci può fare qualche esempio?
Non moltissimo dal moderno, perlomeno, non immediatamente e non direttamente. Dal greco antico, attraverso il latino, una quantità innumerevole. Ho citato qui “fitofarmaco” giusto per fare un esempio, ormai è una parola italiana usata nel linguaggio medico internazionale formata da due parole greche “fito” e “farmaco” presenti in tanti altri lemmi. Questo apporto di grecismi, nei linguaggi tecnici specialistici nei linguaggi colti, sono in rapporto continuo in grandi quantità.
Professore, la nostra lingua italiana incide nella creazione di neologismi di altre lingue, per esempio quelle anglosassoni?
Non c’è dubbio sì. Ho segnalato più volte che nei dizionari standard dell’inglese sia dell’inglese di America sia dell’inglese britannico, la percentuale di neologismi italiani, “italianismi” diciamo, è enormemente superiore alla percentuale di neologismi presenti nei grandi dizionari italiani. Nei grandi dizionari inglesi si arriva oltre il 4% di parole italiane facilmente riconoscibili come tali, si pensi a “pizza”, “piano”, “studio” o “aggiornamento”. Invece nei dizionari italiani, per ora, in uno dei quali mi è capitato di lavorare per la Utet alcuni anni fa, non andiamo oltre il 2% di anglismi.
Meno male questa è una buona notizia.
No, non è che sia una buona notizia… sì noi linguisti siamo un po’ freddi sulla questione. Diciamo che questa è una constatazione.