IL CONCETTO DI RELIGIONE
L’esperienza religiosa elementare
Studi socio-antropologici sul concetto di religiosità
IL CONCETTO DI SACRO
Il sacro e il profano
Lo spazio sacro e la sacralizzazione del mondo
Il tempo sacro e i miti
Rapporto tra realtà e mito
La sacralità della natura e la religione cosmica
Esistenza umana e vita santificata
PERSISTENZA O SCOMPARSA DEL SACRO?
Ambivalenza del sacro e ambivalenza della psiche
Le religioni e i problemi della libertà e della sicurezza
Il mito dell’eterno ritorno
Il sogno del giardino
LE DITTATURE E LA DISTORSIONE DEL SACRO
I deportati, le testimonianze, gli eventi…
La memoria come scelta etica
La creatività delle arti per sconfiggere lo spettro nazista e l’annichilimento della ragione
CONCLUSIONI
Il rischio dell’oblio
BIBLIOGRAFIA
IL SIGNIFICATO STORICO ED ETICO PEDAGOGICO DEL SACRO
Di LAURA TUSSI
IL CONCETTO DI RELIGIONE
Le multifor¬mi esperienze umane, che possono essere qualificate, anche solo genericamente, come religiose non sono riconducibili ad un paradig¬ma tale da consentire una defini¬zione unitaria dei fenomeni ad esso correlati. Le stesse “religioni mondiali”, di cui M. Weber ana¬lizza l'etica economica (confucia¬nesimo, taoismo, induismo, bud¬dhismo, islamismo, giudaismo e cristianesimo) presentano tratti costitutivi che possono essere util¬mente comparati tra loro, ma non altrettanto facilmente dichiarati omologhi, a meno che non si risal¬ga all'esperienza religiosa elemen¬tare e originaria.
Infatti, la definizione di religio¬ne, maturata in epoca romana se¬condo le accezioni di Cicerone e di Lattanzio e poi codificata da Ago¬stino e da Tommaso d'Aquino, rinvia prevalentemente al contesto occidentale e medio-orientale. Ci¬cerone nel De natura deorum (Il, 28) fa derivare il termine religio dal verbo relegere (rileggere con¬siderare con diligenza e scrupolo) e Lattanzio nel Divinae istitutiones (IV. 28) dal verbo religare (legare. fissare).Sembra poi che Agostino riprenda piuttosto la pri¬ma interpretazione nel De utilitate credendi (XII. 27).quando sostie¬ne che “de religione… de colendo atque intelligendo Deo agitur” e definisce la religione come il modo di conoscere e di onorare la divini¬tà. Mentre Tommaso si avvicina di più alla seconda nella Summa theologiae (II-II, q. 81,a.1), dove afferma che “religio proprie im¬portat ordinem ad Deum”, e così la religione risulta essere per lui il complesso delle relazioni che ordi¬nano l'uomo a Dio.
Anche nel campo delle scienze sociali si ritrovano molte posizioni diversificate, che possono però es¬sere ricondotte a due scelte meto¬dologiche di fondo, rispettivamen¬te di Durkheim, che elabora una definizione previa di religione (“il sistema di credenze e di pratiche, inerenti a persone e cose sacre, cioè separate e interdette, che uni¬scono in un unica comunità mora¬le, chiamata 1a Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono”), e di Weber, il quale, secondo la sua logica inter¬pretativa, accetta l'autodefinizione che gli attori sociali danno del loro agire religioso.
L'ESPERIENZA RELIGIO¬SA ELEMENTARE
Due sono i tratti costitutivi dell'esperienza re¬ligiosa elementare: il sentimento del limite e il sentimento del tra¬scendente. Numerosi sono gli eventi quotidiani e straordinari, che ci richiamano la radicale verità del nostro limite essenziale. L'e¬sperienza umana infatti è impre¬gnata di contingenza, che culmina nell'esperienza della morte, di im¬potenza, specie di fronte a certi ostacoli da superare e di penuria di mezzi e di risorse, che richiede la loro economia e la ricerca conti¬nua di fonti energetiche alterna¬tive.
La privazione relativa, che ali¬menta spesso la nostra angoscia, diventa ben presto una situazione-limite nel cui punto di rottura l'uomo si pone il problema a volte drammatico della sua origine e del suo destino. Questa domanda si focalizza poi nella richiesta finale del perché della morte e di riman¬do del perché della vita stessa. La situazione di rottura, il limite, il contingente, richiedono, per esse¬re spiegati, una realtà che li trascenda. Empiricamente si può solo misurare il sentimento, cioè l'espe¬rienza vitale, individuale e colletti¬va, del trascendente, che dà si¬gnificato al contingente, permet¬tendo così di risolvere i suoi in¬quietanti interrogativi.
Il rapporto con il trascendente può avvenire in due diverse moda¬lità, secondo l'obiettivo che il sog¬getto si prefigge: quando entra in relazione con lui per fini non empi¬rici, ma sostantivi ed espressivi, egli fa esperienza religiosa: quan¬do invece l'uomo manipola il tra¬scendente per semplici scopi im¬mediati e concreti, in questo caso fa esperienza magica, che in defini¬tiva risulta essere un'attività stru¬mentale. Religione e magia sono due fatti irriducibili tra loro, anche se nel vissuto elementi magici si possono mescolare a quelli reli¬giosi.
La sociologia classica ha utiliz¬zato due concetti fondamentali per comprendere e definire operativamente l’esperienza del trascenden¬te. Durkheim parla del sacro e della sua sfera, che per essenza si diversifica radicalmente dal profano. Il profano è il regno dell’espe¬rienza comune, della vita quotidia¬na, dell’attività economica del la¬voro del limite. Mentre il sacro è potenza e forza, che dà sostegno, sicurezza e stabilità a tutto quello che è feriale. Le forze sacre sono però ambigue, nel senso che esse sono positive e negative, propizie e infauste, attraenti e ripugnanti, utili e pericolose per gli uomini. Nei confronti del sacro l’uomo prova un timore riverenziale, che diventa impegno etico e osservan¬za morale. Alla fine per Durkheim l'esperienza del sacro si risolve nel sentimento di appartenenza alla collettività: il suo Dio è la società stessa. E così la sociologia, scienza del sociale, come già aveva affer¬mato Comte, diventa una nuova teologia e il sociologo un nuovo sacerdote, che educa il cittadino allo sviluppo della coscienza parte¬cipativa in funzione della solidarie¬tà e dell'integrazione sociale. Queste, secondo Durkheim. sono le virtù da sviluppare, mentre il vizio da estirpare rimane la loro mancanza, cioè l’anomia e il conflitto sociale.
Weber invece interpreta il trascendente vissuto come carisma e la sua esperienza collettiva come esperienza carismatica. Il carisma, che non si presenta solo sotto sembianze religiose, è una qualità straordinaria, che viene attribuita ad un individuo da coloro che diventano in tal modo i suoi segua¬ci. Il carisma è forza dirompente e innovativa, è elemento creativo e terapeutico dell'angoscia esisten¬ziale. Esso inoltre diventa valore emblematico ed esemplare tanto da essere accettato da chi lo rico¬nosce come imperativo morale.
STUDI SOCIO-ANTROPO¬LOGICI SUL CONCETTO DI RELIGIOSITA’
Grande eco hanno avu¬to nella cultura politica contempo¬ranea le riflessioni di A. Gramsci sul folklore religioso, in cui intra¬vide la presenza di emozioni scate¬nate da esigenze biologiche ed economiche della povera gente, che, in tempi più maturi, hanno trovato espressioni più adeguate in teorie e programmi di politica sociale. Su questa scia si possono collocare le ricerche di A.M. Di Nola sui sottofondi magici della religiosità ed ancor più la presa di posizione di V. Lanternari, nei confronti di riferimento onnivalen¬te all'esperienza religiosa, di tutte le manifestazioni culturali. In anti¬tesi a G. De Leeuw, egli osserva che molte costumanze, ad es. la festa, possono trovare spiegazioni sostanzialmente laiche. Sono as¬sunzioni interpretative di fenome¬ni abitualmente riferiti alla religio¬ne, che trovano apprezzamento soprattutto se vengono riferite al generale spostamento del pensiero da prospettive teleologiche ad al¬tre più strumentali. Oggi interessa meno l'oggettività delle nozioni costitutive della cultura, mentre si pone tanta enfasi sulla loro soggettività: minore attenzione si pone sul perché del credere e molto maggiore sul come si crede. L'im¬putazione causale delle nostre no¬zioni culturali non si presenta più in termini di ispirazione, ma si preferisce definirla come intuizio¬ne quando trova collocamento adeguato nel sistema culturale del soggetto, oppure come allucina¬zione se non vi si inquadra. Quello che per lo scienziato, nella religio¬sità popolare, risulta intuizione o allucinazione, gravide di emozioni collettive, per chi la vive e la diffonde risulta invece autentica ispirazione, sia pure differenziabi¬le in qualifiche diverse, come: divi¬na, angelica, demoniaca.
La ricchezza di contenuto dei temi del culto popolare è stata recentemente rilevata da F. Ferra¬rotti in Il paradosso del sacro. Egli si pone in polemica nei confronti di quei pensatori, come De Marti¬no e Acquaviva, che hanno preco¬nizzato un processo di secolarizza¬zione, per l'uno irreversibile, per il secondo equivoco, già negli anni '50. Né estinzione, né eclisse del sacro, a suo giudizio, si possono provare, ma solo spostamenti ed evoluzioni, e specialmente un de¬bordamento della pietà religiosa dalle inferriate istituzionali. La re¬viviscenza del sacro nei Paesi più industrializzati, e perfino nelle lo¬ro élites culturali, non è imputabi¬le solo all'attivismo delle Chiese, ma anche ad improvvise irruzioni di carismi che scatenano movimen¬ti spontanei. L'ampiezza del sacro considerato da Ferrarotti è enor¬me ed abbraccia neopentecostali e carismatici, meditazione trascen¬dentale e de-ipnosi, astrologia e ufologia, satanismo e messe nere. Riprendendo una tesi di R. Cail¬lois (1939),che rintraccia nel sacro tanta souillure e débouche, Ferra¬rotti qualifica sacri tanti comporta¬menti irrazionali, paranoici, pa¬rapsichici e perfino immorali, sen¬za peraltro approfondire quali ele¬menti tematici, ambientali e mo¬dali propongano di accoglierli nell'ambito del sacro. Precisa, tutta¬via, che in questa sfera si distingue bene un nucleo che deve dirsi seriamente “religioso”. nel senso agostiniano di culto accettabile dalla ragione. Non tutto ciò che è sacro, infatti, è irrazionale e in¬comprensibile, contrastante ai principi logico-ontologici e alle procedure scientifiche del razioci¬nio formale. Su questa via si erano già posti gli autori del Nuovo Te¬stamento, quando rifiutarono l'im¬piego dei termini ieròs, sanctum e preferirono àgios, sanctum, per in¬dicare i valori specifici del cristia¬nesimo.
Vasta è la rilevazione di atteg¬giamenti implicitamente religiosi in tanti comportamenti personali e sociali vissuti in ambienti ufficial¬mente laici. Lo specifico religioso può riferirsi alla naturale tendenza al trascendente, oppure ad opzioni valoriali propri della rivelazione cristiana.
IL CONCETTO DI SACRO
Questo termine è stato impiegato dalla teologia solitamente per indicare quella sfera di realtà visibile e invisibile che va considerata possesso esclu¬sivo della divinità e quindi va sot¬tratta all'uso quotidiano del mer¬cato. Tuttavia anche in ambienti extraecclesiali si è soliti attribuire carattere sacrale a dati simboli e valori verso i quali si rivendica la riverenza del pubblico. Quando in sociologia si parla di “sacro” si fa riferimento a quei concetti che in esso ha convogliato R. Otto. Que¬sto studioso procede sulla scia del¬le dottrine scaturite dall'idealismo romantico, che avevano segnalato nel fatto religioso soprattutto un dato emozionale, irrazionale, fino a ridurlo a sentimento. In questa luce si è poi cercato di comprende¬re quel materiale etnografico, di cui è difficile afferrare la funzione razionale, né sempre si riesce a distinguere chiaramente l'elemen¬to totemico, quello magico e quel¬lo religioso. Ne sono venute alcu¬ne idee utili all'analisi della religio¬sità nella società moderna.
La prima preoccupazione di Otto è quella di avvertire che il sacro non è facilmente conoscibile e definibi¬le: “si può soltanto provocare, destare, come tutto ciò che viene dallo spirito”.La “provocazione” di Otto inizia con la constatazione che alla base di ogni religione c'è un sentimento irrazionale di terrore e nello stesso tempo di fascinazione, in cui si esprime la relazione dell'uomo con Dio. Nel¬le articolazioni linguistiche dottri¬nali il “numinoso”, termine con cui si vuol indicare l'elemento irra¬zionale originario di ogni religione, viene razionalizzato, dando corpo da una parte alle idee razio¬nali di giustizia, legge, morale, peccato, e dall'altra all'immagine della divinità come misericordia, provvidenza, ecc. Dal rapporto tra l'irrazionale originario e il raziona¬le nasce il sacro.
E importante distinguere nell'e¬sperienza religiosa, nel numinoso, la presenza del mysterium (il senti¬mento di qualcosa di straordinario e di incompreso, senza alcuna spe¬cificazione qualitativa) e del tre¬mendum (è una specificazione del mysterium con la quale si indica un sentimento di particolare timore, non confondibile con altre forme di timore, e legato all'assoluta so¬vrappotenza, alla maestà del tre¬mendum). Parlare del mysterium tremendum significa semplicemen¬te avere un po' circoscritto l'inaf¬ferrabile categoria del sacro. Ci si avvicina ulteriormente ad essa se si usa l'espressione “totalmente al¬tro”, indicando così ciò che è al di là della sfera dell'usuale, del comprensibile, del familiare, fuori dell'ordinario, ciò che provoca stupo¬re. Per questo le raffigurazioni del “totalmente altro” devono essere considerate tutte forme posteriori di razionalizzazione, con le quali non si è ottenuto altro risultato se non quello di assottigliare e inde¬bolire l'esperienza stessa del “to¬talmente altro”.
Se la maiestas intimorisce, il nu¬minoso ha anche un aspetto “fasci¬noso”, attraente. Così l'esperienza del sacro comprende questi due elementi contrastanti: il tremore, lo smarrimento di fronte al numi¬noso. e tuttavia il bisogno di avvi¬cinarsi ad esso, addirittura di pos¬sederlo, di farlo proprio. Infine, tra gli attributi del sacro (sanctum) è da considerare la pienezza di valore, che oltrepassa ogni capaci¬tà di comprensione: il sacro è au¬gustum, possiede cioè un valore oggettivo che impone rispetto in sè.
Sono questi i termini essenziali coi quali Otto cerca di sopperire all'incapacità del linguaggio umano di esprimere compiutamente ciò che resta “totalmente altro”. Il tentativo di Otto può dunque esse¬re inteso come l'elaborazione di una proposta che riesca a superare l'ostacolo di esprimere nelle arti¬colazioni del linguaggio una realtà vissuta e difficilmente esprimibile.
IL SACRO E IL PROFANO
In una prospettiva diversa, e forse più utile alla sociologia, in quanto più facilmente trasferibile a livello operativo empirico, si po¬ne M. Eliade, con il suo saggio Il sacro e il profano. “Vorremmo presentare a differenza di Otto il fenomeno del sacro in tutta la sua complessità e non soltanto in ciò che di irrazionale esso comporta. Non ci interessa il rapporto tra gli elementi non-razionali e quelli ra¬zionali della religione, bensì il sa¬cro nella sua totalità. Orbene, la prima definizione che si può dare del sacro è che esso si oppone al profano”. Come si manifesta il sacro? La ierofania (= manifesta¬zione del sacro) consiste innanzi¬tutto in un'apparizione che si diffe¬renzia dal profano, dal quotidiano, dal normale, una differenziazione che avviene non solo nelle cose quotidiane, ma attraverso di esse. La ierofania costituisce un para¬dosso: “Nella manifestazione del sacro un oggetto qualsiasi diventa un'altra cosa, senza cessare di es¬sere se stesso …; per coloro che hanno un'esperienza religiosa, tut¬ta la natura può rivelarsi come sacralità cosmica”.La questione della distinzione tra sacro e profa¬no riguarda in definitiva due modi diversi di porsi nel mondo, due diverse situazioni esistenziali. Si possono avere, cioè, due tipi di esperienza del mondo: un tipo sa¬cro e un tipo profano. Da questo punto di vista è chiara l'importan¬za che viene ad assumere l'analisi del sacro: essa coincide con la descrizione degli universali carat¬teri che sono posseduti dall'uomo religioso. L'analisi di Eliade, con¬dotta sulle popolazioni arcaiche ma con continui agganci al nostro tempo, si svolge attorno a quattro argomenti principali: lo spazio sa¬cro e la sacralizzazione del mondo; il tempo sacro e i miti; la sacralità della natura e la religione cosmica; esistenza umana e vita santificata.
LO SPAZIO SACRO E LA SACRA¬LIZZAZIONE DEL MONDO
L’apparizione del sacro rende non omoge¬neo lo spazio fisico. Questo, nel suo aspetto profano precedente e staccato dall'intervento del sacro, sarebbe essenzialmente amorfo, caotico, incontrollabile da parte dell'uomo, il quale non potrebbe dominarlo, regolarlo, fondarlo e costruire in esso la propria dimora, il proprio spazio vitale. Il sacro stabilisce un centro nel caos, e da questo centro tutto l'universo vie¬ne regolato, in modo tale che le varie parti del mondo sono ad un tempo distinte tra di loro e collega¬te da vie di accesso ben definite. Il mondo viene così ad avere un orientamento cosmologico. L'essere stesso dell'uomo è collegato a questo intervento sacrale; la sua entità rimane in vita finché, attra¬verso il sacro, è distinta dal caos, luogo di angoscia, di svuotamento ontologico.
La partecipazione al sacro pone l'uomo al centro del mondo, nel cuore della realtà: “L'uomo reli¬gioso si pone al centro del mondo e contemporaneamente presso la sorgente stessa della realtà assolu¬ta, vicinissimo all’”apertura” che gli assicura la comunicazione con gli dèi”. Nell'insediarsi in un luo¬go, l'uomo ripete la cosmogonia, compie cioè un'azione religiosa, primo passo di avvicinamento al mondo degli dèi, per il quale l'uo¬mo ha una profonda nostalgia.
IL TEMPO SACRO E I MITI
Come lo spazio, anche il tempo non è omogeneo. Nella durata temporale quotidiana vi sono degli intervalli di tempo sacro, le feste. La festa sacra consiste in una riat¬tualizzazione di un evento sacro avvenuto in un passato mitico. Celebrare una festa significa parte¬cipare ad un tempo immobile, sempre uguale, che non ha durata né si esaurisce. La localizzazione di questo tempo è in illo tempore, quando il tempo fu santificato dal¬la presenza del dio creatore. La festa è anzitutto una scadenza pe¬riodica, la conclusione di un ciclo. Il ciclo più importante, quello an¬nuale, riconduce l'uomo all'inizio, alla nuova creazione, all'originaria cosmogonia. La festa ha anche il significato di riattualizzare l'atto cosmogonico. In questo modo essa ha quasi la funzione di rigenerare il tempo, che viene ricondotto al tempo iniziale. L'uomo religioso che celebra la festa nasce pure lui di nuovo, con le forze intatte.
Molti miti hanno appunto la funzione di riattualizzare il tempo mitico, e, più in generale, stanno a testimoniare il “bisogno dell'uomo religioso di riprodurre indefinitamente gli stessi gesti esemplari”, bisogno legato all'aspirazione e al¬lo sforzo dell'uomo religioso di vivere il più possibile vicino ai suoi dèi, alla sua origine. Periodica¬mente egli diviene “contempora¬neo” degli dèi, desidera vivere alla loro presenza. In qualche modo egli vuole partecipare all'Essere. Tale partecipazione gli viene ga¬rantita dai suoi miti, nei quali vi sono tutte le rivelazioni primordia¬li del dio all'uomo, rivelazioni di cui l'uomo è custode. “Il mito è la storia di quanto è accaduto in illo tempore, la rappresentazione di ciò che gli dèi, o gli esseri divini, hanno fatto in principio”. Attra¬verso i miti l'uomo può riprodurre i modelli divini, e così mantenersi nel sacro, nella realtà, e il mondo stesso, qualora l'uomo compia i gesti divini esemplari, viene san¬tificato o mantenuto tale. La storia sacra è il continuo ripetersi (l'eter¬no ritorno) di questo rifarsi alle origini. Una volta che la concezio¬ne del tempo sia stata desacralizza¬ta, che la sua figura non sia più quella di un circolo chiuso, ma quella di una linea con un inizio e una fine, il tempo “ha il significato di una durata precaria ed evane¬scente, che conduce irrimediabil¬mente alla morte”.
RAPPORTO TRA REALTÀ E MITO
Il mito, quale idealizzazione esemplare in corrispondenza di una carica di eccezio¬nale e diffusa partecipazione fantastica, è la risoluzione istintiva del bisogno che spinge l'uomo (immaginario privato) e la comunità (immaginario collettivo) posti di fronte all'incidenza di eventi qualsiasi a ri¬cercarne le motivazioni.
Non sono infatti unicamente gli avveni¬menti imprevisti o inconsueti, i cataclismi e le calamità turbanti in modo atipico lo stato di concretezza, gli stimoli di questo processo (nella concatenazione: avveni¬mento – stupore – atteggiamento reattivo), ma essenzialmente – secondo quanto sostengono etnologi e sociologi – l'esi¬genza di instaurare relazioni controllabili fra cause ed effetti. Non la modificazione della realtà tangibile provocata dall'incon¬sueto, quanto il fatto che esso esista ed agisca, in modo imprevedibile sul con¬sueto, contribuisce dunque alla trasfor¬mazione dell’appreso in sistemi di valori traslati.
Così l'eclissi o il terremoto o la folgore, non risvegliano curiosità più profonde e contrastanti del ciclico ri¬petersi delle lune o delle stagioni o dell'al¬ba e del tramonto. Particolarmente conturbante sarebbe il loro scollamento fuori da un ordine abituale, diventato punto di riferimento permanente ed allo stesso tempo punto di partenza, sempre consi¬derato come invariabile, come Natura as¬soluta.
La vita della gente contadina, dei nostri progenitori, che si svolgeva nei cortili, era scandita dai cicli stagionali. Nella storia di ogni tempo l'uomo ha sempre lottato contro le forze naturali, temibili per la loro violenza, fino a quando il progresso e le rivoluzioni in¬dustriali e tecnologiche, lo hanno po¬sto in una posizione di preminenza è di sopraffazione nei confronti dell'am¬biente. Il rapporto della civiltà rurale con la natura si rivelava incentrato su sentimenti di rispetto, amore, ma so¬prattutto timore.
La vita agricola, le ciclicità stagio¬nali, che regolavano l'esistenza conta¬dina, scandendo i periodi delle semi¬ne, delle trebbiature, delle vendemmie, dell'uccisione di certi animali a seconda del periodo dell'anno, in rit¬micità temporali, permettevano al po¬polo contadino di sentirsi parte inte¬grante di una comunità, determinata da uno specifico senso di appartenenza alla stessa, le cui ritualità, caratteriz¬zate da una cultura magico-religiosa e realistico-concreta, permettevano a tutti di riconoscersi in un'identità ben precisa. Infatti la visione del mondo da parte dei contadini era caratterizzata da una fortissima unità attraverso un'identità che garantiva una maggio¬re sicurezza collettiva. Nonostante il duro lavoro nei campi, le epidemie, le cattive annate, le condizioni atmosfe¬riche sfavorevoli e la povertà che ren¬devano difficile la loro già precaria esi¬stenza, questa gente credeva nella “Provvidenza” un valore tradizional¬mente custodito nel bagaglio culturale popolare. La speranza che scaturiva dai loro motti di augurio più usuali, come “Abbi fede”, “Spera nella Prov¬videnza” dimostra il loro modo di af¬frontare le avversità. Le parole e i gesti di propiziazione o di imprecazione hanno, a livello psicologico, un'effica¬cia magico-apotropaica, cioè la facoltà, secondo le credenze, di allontanare il negativo, di assicurare il benessere dei singoli e dell'intera comunità.
Il rito sottolineava e attribuiva si¬gnificato ai vari momenti dell'esisten¬za: il risveglio, la festa e il lavoro, la na¬scita e la morte, che scandivano il vive¬re comune. Ogni contadino, ogni corti¬le, ogni paese, celebrava riti magico-religiosi per scongiurare le avversità atmosferiche (riti apotropaici), per prevedere l'andamento dei raccolti al fine di propiziare un nuovo ciclo agri¬colo, preparandolo alla prosperità e cancellandone le negatività passate (riti propiziatori).
Da Natale a Carnevale si celebrava una grande festa per l'inizio di un nuo¬vo ciclo stagionale, per cui in famiglia e pubblicamente, si compivano cerimo¬nie rituali finalizzate a ripristinare un senso di fiducia della comunità per il futuro che si auspicava più prospero, rendendo la collettività solidale e com¬patta proprio nel periodo più difficile dell'anno, l'inverno, quando i campi brulli e il freddo intenso rendevano il raccolto una speranza di sopravviven¬za. Questa conoscenza di ritualità tra¬mandata di generazione in generazione contribuiva a costituire l'identità cul¬turale del popolo. L'uomo della società arcaica si sente solidale in rapporto ai ritmi cosmici. La storia sacra trasmes¬sa dai miti (santi e divinità) risulta in¬definitamente ripetibile. Il popolo ri¬tiene i modelli delle istituzioni civili, le norme della condotta umana, fonda¬menti del vivere, rivelati all'inizio dei tempi da un'origine sovrumana.
Il simbolo, il mito, il rituale, costi¬tuiscono un complesso sistema di af¬fermazione sulla realtà ultima delle co¬se: una vera metafisica. Un oggetto sa¬cro o un'azione ripetuta acquistano va¬lore, diventano concreti perché parte¬cipano di una realtà che li trascende. L'oggetto del rituale si trasforma in ri¬cettacolo di una forza esterna che lo differenzia dal resto dell'ambiente, at¬tribuendogli senso e valore. Il rituale consiste nel ricordo di un evento mitico e al contempo nella ripetizione dello stesso, basata su un modello divino, un paradigma archetipo, tramite rievoca¬zioni di gesti inaugurati da altri. Tutti gli atti religiosi sono fondati, nella sto¬ria dei tempi, da divinità, santi, eroi civilizzatori e antenati mitici. L'uomo ripete sempre, ritualizzandolo, l'atto della creazione. Basti pensare al calen¬dario religioso contadino che comme¬mora tutte le fasi cosmogoniche, cioè di creazione dell'universo tradotte nelle ritmicità agricole. Il mito cosmogonico della creazione assumendo uno scopo di restaurazione della pienezza inte¬grale dell'essere, diventa il modello es¬senziale per tutte le cerimonie che au¬spicano la guarigione, la fecondità, la nascita, i lavori dei campi, dove si ri¬pete l'azione divina del creatore.
Magia e religione, esperienze natu¬ralmente divergenti, contribuivano, nella cultura contadina, a mantenere un modello di comportamento solida¬le, di comunione e di aiuto reciproco, valori che le dure condizioni della vita agricola rendevano necessari per il so¬stentamento della stessa comunità. La magia è fede nel soprannaturale, basa¬ta sull'efficacia riparatrice dei riti compiuti dall'uomo, mentre la religio¬ne affida le sue preghiere a Dio, sem¬pre in grado di esaudirle, anche se a volte non venivano ascoltate. Per que¬sto motivo si ricorreva ai santi visti co¬me intermediari tra l'uomo e la divini¬tà.
La mitologia allora nacque non tanto dall'esigenza di chiarire l'eccezionale, quanto dalla volontà di afferrare la lezione dell'ordinario.
Il rito nacque per esorcizzare l'eccezio¬nale. Tutte le religioni comprendono un in¬sieme di riti dalle funzioni ben precise: riti di consacrazione, per ammettere un luo¬go un oggetto un uomo nell'ambito della sacralità; riti di dissacrazione, che reinse¬riscono nel mondo profano ciò che era sa¬cro; riti di proibizione, che stabiliscono confini insormontabili fra i due campi; riti di espiazione, che hanno la funzione di li¬berare e purificare mediante il sacrificio.
Questo binomio (mitologia + rito) è l’espressione simultanea dell’ideologia nella quale si riconosce ogni gruppo umano e delle possibilità di trasformazione di essa in pratica.
Il rito infatti libera il ricco potenziale emotivo di una realtà nascosta ma accat¬tivante che corrisponde, quasi in paralle¬lo, alla realtà naturale: nuovi modi di per¬cezione vengono elaborati materializzan¬doli ed istituzionalizzandoli in sistemi di simboli (dal latino symbolus = contras¬segno) che supportano l’immaginazione del gruppo come “consensus” (accordo) sociale.
Consueto ed eccezionale, fenomeni stimolanti in pari grado l'umana curiosità per il loro meccanismo parzialmente compreso o fuori della dinamica nota, do¬vevano avere un autore: prima di qualsia¬si spiegazione logica, l'uomo elaborò una serie di spiegazioni mitiche della gerar¬chia delle relazioni concrete (il tuono non è un fenomeno acustico da mettere in re¬lazione con una scarica elettrica atmosfe¬rica, ma il diavolo che attraversa in carroz¬za i valloni).
Il mito si è associato ai tentativi di spie¬gare le condizioni cosmiche; in presenza di ogni fenomeno l'uomo frugò l'intero campo della sua conoscenza finché non gli riuscì di trovare qualcosa che, adattan¬dosi facilmente al problema in questione, gliene desse soddisfacente spiegazione.
L'essenza del mito, dice l'antropologo Malinowski, è un atto istitutivo non storia falsificata o scienza mistificata. A differen¬za della leggenda (narrazione a cui si pre¬sta fede come fosse storia) e della tavola (piena di accadimenti prodigiosi, ma sen¬za connessione con i rituali), il mito è “l'as¬serzione di una più alta ed importante ve¬rità, di una realtà primordiale, alla quale si guarda ancora come al modello ed al fon¬damento della vita antica” (cfr. B. Mali¬nowski, Sex Culture and Myth, 1963): una specie di “modello teorico” della nostra attuale scienza.
Non descrizione allegorica del mondo della natura (sole, stelle, luna, stagioni, ecc.) e dell'inconscio dell'uomo, ma pro¬posizione di essi in modelli che soddisfino le curiosità motivate sorte dal mondo dell'intelligenza.
L'approccio al pensiero religioso passa quindi attraverso il labirinto del mito – atto istitutivo perpetuato da un rituale che fa rivivere l’accadimento da esso narrato -.
Una certa sacralità e la sua connessio¬ne con il rituale sono infatti peculiari del mito, ma non dimentichiamo che esso può talvolta anche combinarsi con gli aspetti meglio assimilabili delle favole e delle leggende, nel tentativo ampliato di fornire tutte le risposte ai “perché univer¬sali”: in questo modo l'uomo primitivo cercò di organizzare l'area brutalmente polimorfica che lo incuriosiva con la sua mole di problemi radicali; similmente, le società che hanno subito minimi muta¬menti (per scelta o per isolamento) in un lungo corso di anni, ora minacciosamente assediate dal tempo tecnologico, si spie¬gano con richiami fumosi i continui am¬pliamenti del mondo circostante.
Pensiamo quale dovette essere l'insta¬bilità psichica dell'uomo uscito dal perio¬do aurignaciano-perigordiano (30.000/ 18.000 anni fa), con il cervello ormai nelle sue piene dimensioni, venuto a contatto con una massa di cose e di accadimenti – strani e spesso ostili – che lo interessa¬vano, ma contemporaneamente lo spa¬ventavano per il contenuto incompreso.
Il mondo esterno da una parte e la sem¬pre più vigorosa spinta delle necessità materiali dall'altra, provocarono nel tem¬po l'estendersi di interessi ad un ambito più vasto innescando, con lo sviluppo del¬la personalità, anche un nuovo orienta¬mento ed una diversa presa di coscienza.
Questo nostro antenato trascurò allora causalità e modalità, reperibili con l'osser¬vazione e la riflessione, per rivolgersi a meditare le conflittualità profonde che ri¬teneva di scorgere in ciascun avvenimen¬to.
Si può supporre che nei rapporti con¬creti fra le cose, nei rapporti di forze che sentiva ancora indefinibili intorno a sé, ab¬bia intuito un dominio in grado di modifi¬care l'ordine del mondo con le proprie illi¬mitate capacità d'intervento: un fatto di¬namico, una possibilità di trasformazione continua, che lascia aperto anche il più chiuso rapporto con il sacro e rende incer¬ta la finalità più fatidica.
Tutti gli eventi che trascendevano il po¬tere umano furono di conseguenza fatti ri¬salire ad un mondo di esseri che li deter¬minano e che, pur somigliando agli uma¬ni, per molti aspetti, li superano in potenza ed in capacità tanto da costituire, per ciascun gruppo etnico, quel pantheon immaginifico che ci è dato conoscere sotto forma di racconti mitici, tradizioni orali, leggende elaborate, venutosi a formare secondo un'evoluzione uniforme di tre grandi fasi:
– fase del mana – o fase dell'assenza di demarcazione tra materia e spirito: ca¬ratterizzata unicamente dalla presenza di una potenza misteriosa, viva ed insita in tutte le cose della terra, animate od inanimate, e nei fenomeni naturali.
Una forza onnipresente e non indagabile, impersonale ed indifferenziata, alla quale l'uomo rimandava tutto l'incom¬prensibile e l'imprevedibile. La stessa paura conseguente ai fenomeni non era altro che la manifestazione di tale onni¬presenza (da non confondersi questo atteggiamento con il – panteismo – dal momento che, a quel punto della sua evoluzione, l'uomo non aveva ancora concepito la nozione di divinità).
Si tratta, per questa prima fase, di “pananimismo” dotato “simultanea¬mente di un carattere magico e religio¬so” (Robert Aron).
– fase del naturismo -: il mana rimane an¬cora valido ma si frantuma, si localizza, si suddivide in strutture più complesse che lo inglobano – vegetali animali mi¬nerali -, nelle quali inizialmente si dif¬fondeva indifferentemente senza mai precisare la sua natura di sacro imper¬scrutabile.
Questa è la fase dinamica della rela¬zione che esiste nell'interdipendenza e nell'interazione costante fra causa ed ef¬fetto, ma i mezzi di cui il gruppo dispone per orientare e/o organizzare gli eventi, sono patrimonio di pochissimi iniziati.
L'immaginario collettivo o sociale (del quale è bene precisare che non si tratta della somma di immaginari individuali, essendo esso il fondo comune dei sim¬boli dell'umanità, substrato risultante della relazione tra la repressione sociale necessaria alla sopravvivenza del grup¬po e un processo continuo di destruttu¬razione dell'ordine esistente) viene ma¬nipolato da questi detentori del potere magico, in modo che un sistema di si¬gnificati sia rappresentato con una cate¬goria di atti.
Uomini privilegiati – stregoni, sciama¬ni “gli uomini della medicina”, sibille – (in genere individui affetti da imperfezioni fisiche di tipo particolare o da alterazioni psichiche che agli occhi del nucleo tribale apparivano “segni” di ecceziona¬lità) sono riconosciuti personaggi chia¬ve, unici in grado di entrare in comunica¬zione con il soprannaturale per invocare o per placare (lo stregone cristallizza, in un certo modo, le virtualità sociali anco¬ra impensate).
L'immaginario individuale si esprime invece nell'adorazione delle forze e de¬gli eventi naturali – potenza e nefandez¬za del mana -, così come esso si estrin¬seca nei fiumi, nelle montagne, nei venti, nelle tempeste.
Dal mana totale, il culto si sposta dun¬que alle cose ritenute esserne il ricetta¬colo: l'albero, la roccia particolare, il sole, la sorgente, assumendo l'aspetto di una religiosità che è stata chiamata “feticis¬mo”.
– fase dell'antropomorfismo -: è la fase de¬cisiva sul piano spirituale, quella cioè che sposta dal livello terreno al trascen¬dente il potere degli “spiriti determinan¬ti” (fase mitologica).
Gli esseri soprannaturali che circon¬dano l'uomo non sono più insiti nelle co¬se della natura. ma assumono fisiono¬mia antropica, diventano cioè – come gli uomini portatori di doti buone o cat¬tive, di virtù e di debolezze, in grado su¬periore a quello dell'uomo dal momento che sono potenzialmente capaci di pro¬durre il bene ed il male (tutto il bene e tutto il male), responsabili di determinare la vita e di orientare qualsiasi forma di attività.
L'uomo immaginante crea una gerarchia di spiriti: più temibili e potenti, generalmente più distanti da lui (sog¬giornano nelle acque, nelle montagne, nelle cavità a si manifestano assai rara¬mente); altri, più accessibili, che gra¬dualmente prende a conformare a sua immagine e somiglianza e quindi forniti di aspetto, facoltà e destini propri dell'uomo (antropomorfismo), passan¬do attraverso la fase zoomorfica a so¬miglianza di animali).
E' lecito a questo punto parlare di vere e proprie divinità, anche se il passaggio dal naturismo all'antropomorfismo si ve¬rificò presso tutti i popoli in un periodo di tempo variabile ed attraverso fasi inter¬medie, talvolta parecchio estese, spes¬so chiaramente definibili di semiantro¬pomorfismo e di semizoomorfismo (vedi il politeismo dei Babilonesi).
LA SACRALITÀ DELLA NATURA E LA RELIGIONE COSMICA
Anche la natura, per l'uomo religioso, non è mai puramente “naturale”, ma è ricca di significato religioso. Il fat¬to stesso che il mondo esista, che non sia un caos, ma che possegga una struttura, costituisce un aspet¬to sacrale. La struttura del mondo, il suo modo d'essere, rivela la sacralità all'uomo religioso in sva¬riati modi. Si comincia dalla infini¬ta alterità che il cielo rappresenta per l'uomo: là è la trascendenza, là, quindi, è la dimora degli dèi. Non si tratta di un ragionamento, bensì di un'intuizione di sé come totalmente staccato dal cielo; que¬sto luogo non è Dio, ma ciò presso cui sta Dio, il “luogo” di Dio.
Queste divinità celesti tendono ad allontanarsi, a divenire lontane, staccate dal mondo. Permangono in forma di simbolo. Allora l'uomo rivolge la sua attenzione verso il mondo: la sua esperienza religiosa diventa più concreta. Il sacro emerge nella vita quotidiana, salva restando l'invocazione al dio tra¬scendente nel caso di estremo bi¬sogno. Sono dunque le potenze della vita che prendono il posto dei grandi essere superiori. Ma a que¬sto proposito è necessario ricordare che le rivelazioni della sacralità cosmica rimangono sempre rivela¬zioni primordiali: tutte le altre in¬novazioni storiche non riescono ad eliminarle completamente. Nel simbolo sacro arcaico permane il sacro celeste. Eliade presenta a questo proposito miti ed usanze legate all'acqua, al parto, alla terra mater; accenna ai riti di fecondità al simbolismo dell'albero cosmico e ai culti della vegetazione. La vita stessa, coi suoi ritmi diviene occa¬sione per l'uomo religioso di scor¬gere la presenza del sacro. Vi è un numero considerevole di ierofanie cosmiche. Il mistero della vita, la realtà della vita delle azioni umane, è misteriosamente racchiuso nei ritmi cosmici. In sintesi: la natura conserva un “fascino”, un “mistero”, una “maestà” in cui si possono facilmente rintracciare gli antichi valori religiosi.
ESISTENZA UMANA E VITA SANTIFICATA
Per l'uomo religioso delle società arcaiche la vita può essere santificata nella sua totalità. In effetti per lui tutti i comporta¬menti umani sono stati inaugurati dagli dèi in illo tempore. E anche l'uomo stesso, in quanto si identifi¬ca con l'universo (occhio=sole; alito=vento…), ha un significato religioso. Ma soprattutto l'uomo, come s'è visto sinora, è in comuni¬cazione con gli dèi e partecipa alla santità del mondo. Egli rappresen¬ta, al pari del cosmo sacro e dello spazio sacro, un microcosmo in cui si verificano tutti i fenomeni sacri.
Come tutti gli altri cosmi, anche il cosmo umano consente un passag¬gio da un modo di essere a un altro, passaggio esemplare che rie¬cheggia il fatto sacro iniziale: il passaggio dal virtuale al formale. Le diverse modalità secondo cui è concepito tale passaggio consen¬tono ad Eliade di fare un'afferma¬zione molto importante, che dà la misura della presenza e del signifi¬cato della concezione religiosa nell'uomo. “Nell'esperienza di un uo¬mo religioso viene trasfigurata la vita comune di ogni giorno: ovun¬que egli scopre un mistero, una chiave. Anche il gesto più insignifi¬cante può significare un atto spiri¬tuale”. Di qui la considerevole importanza dei riti di passaggio. Tali riti servono ad interare l'uo¬mo nelle comunità degli esseri vi¬venti. Per questo non si diventa un uomo completo se non dopo aver abolito l'umanità naturale ed esse¬re risorti, aver cioè rifondato la propria umanità, in ciò imitando gli dèi che hanno istituito la vita, e compiendo quindi un'azione so¬vrumana. Esercitando nella pro¬pria vita tutte le funzioni svolte all'inizio dalla divinità, e prose¬guendo quindi l'opera di questa, “l'uomo primitivo si sforza di rag¬giungere un ideale religioso di umanità”.
PERSISTENZA O SCOM¬PARSA DEL SACRO?
M. Elia¬de conclude il suo volume con un paragrafo dedicato a “Il sacro e il profano nel mondo moderno”, che può servire per introdurre i termini di una discussione sociolo¬gica, particolarmente viva oggi, sulla presenza o meno del sacro nella nostra società odierna e più in generale sul significato che ha – ed aveva – tale presenza per la vita umana. Possiamo sintetizzare le conclu¬sioni cui giunge Eliade dicendo che gli stretti rapporti che egli individua tra simbolismo e co¬scienza, tra i caratteri specifici del “profano” e del “sacro”, sembrano avallare la tesi che la secolariz¬zazione di un valore religioso, os¬sia la scomparsa di alcuni compor¬tamenti che in alcune società svol¬gevano la funzione sacrale sopra descritta, costituisce semplicemen¬te un fenomeno religioso, il quale, in fin dei conti, non fa che illustra¬re la legge della trasformazione universale dei valori umani. Per Eliade è piuttosto chiaro che oggi, nelle moderne società occidentali, è avvenuto il pieno risveglio dell'uomo areligioso, che mira ad una libertà che si può raggiungere solo attraverso l'eliminazione dell'ulti¬mo dio. Ma quest'uomo deriva dall'homo religiosus. L'uomo pro¬fano “porta ancora le tracce del comportamento dell'uomo religio¬so, depurate dei significati religio¬si”. La realtà che egli ha sconfes¬sato lo ossessiona. Forme mitiche, comportamenti religiosi camuffati persistono tuttora. Ciò significa che la fondazione ultima dell'essere non riesce facilmente a staccarsi dall'iniziale interpretazione sacra¬le che ne è stata data. Tale inter¬pretazione è troppo radicata, fa parte dell'inconscio umano, ele¬mento fondamentale della struttu¬ra ontologica dell'uomo. L'uomo areligioso delle società odierne è tuttora alimentato e aiutato dal¬l'attività del suo inconscio, il quale dunque non solo esercita una fun¬zione della religione, ma conserva esso stesso dei legami col sacro.
Non si fatica a comprendere come questa discussione porta a toccare il tema della secolariz¬zazione. E allora opportuno ricor¬dare qui la posizione di P.L. Ber¬ger, che per molti versi si riallaccia alla prospettiva di Eliade, col suo tentativo di dimostrare come il sacro, e con esso la religione, ha un ruolo fondamentale nella co¬struzione del mondo psicologico ¬conoscitivo dell'uomo, di cui costi¬tuisce una legittimazione. I valori simbolici religiosi offrono una struttura di plausibilità alla società intera, per cui sono essi pure sog¬getti alle corrosioni storico-cultu¬rali. Di qui prende il via il fenome¬no della secolarizzazione. Questa crisi religiosa, quindi, non è che un aspetto della più generale crisi del¬le definizioni tradizionali della realtà. E’ la crisi di un sistema conoscitivo, non delle sacralità in sé (il cui vero senso rimane un fatto problematico). P.L. Berger affronta il pro¬blema della religione dal punto di vista della sociologia della cono¬scenza, e ciò gli consente di inter¬pretare il fenomeno della secola¬rizzazione come rimozione del dominio religioso, istituzionale e simbolico, dai settori della socie¬tà e della cultura. La religione, in passato, rendeva plausibile la realtà, scongiurando in questo modo l'anomia sociale, vale a dire la conseguenza della man¬canza di norme coesive tra gli individui di una società. Oggi è subentrato il pluralismo religioso: vi sono varie strutture di plausibi¬lità in concorrenza tra loro e la riunione in comunità è volonta¬ria. Di qui il fatto che la religione si riduca alla scelta spirituale di pochi. Inoltre, poiché la religione non incide più sulla formazione di una cultura sociale, non è più una realtà decisamente importante, ma può essere adottata o rifiutata a piacimento. Il fenomeno della secolarizzazione riguarda dunque una visione del mondo che cessa di essere religiosa (non ha più le caratteristiche funzioni sociali che dovrebbe avere la religione), ma che, ciò nonostante, sopravvi¬ve, perché l'uomo ne ha sempre bisogno.
Quasi come un naturale prose¬guimento delle conclusioni di Ber¬ger sono da considerare le affer¬mazioni di T. Luckmann, per il quale la decadenza e anche la scomparsa di qualche forma reli¬giosa di tipo sacrale non può essere identificata con la fine della religio¬ne. Sta anzi nascendo, sostiene Luckmann. una nuova religione, che trova la sua forma simbolica in una visione del mondo con un minimo di trascendenza.
Sulla scia di queste osservazioni si pongono i rilievi di S.S. Acquaviva, per il quale la crisi religiosa odierna va intesa come il connubio tra secolarizzazione e dissacrazio¬ne, accennando nuovamente, in questo modo, ai problematici rap¬porti che legano tra loro sacro e religione.
Egli propone un'attenta distin¬zione fra uso magico del sacro ed esperienza del sacro ed attribuisce a quest'ultima lo stesso significato che nella tradizione dottrinale cat¬tolica ha sempre avuto l'esperien¬za mistica, intesa come conoscenza sperimentale e amorosa di Dio, sia pur ridotto a un quid non meglio definibile che come “radicalmente altro”. La fine dell'uso magico del sacro conduce ad un “collasso di significati, in senso sociale, dei comportamenti religiosi tradizio¬nali”. La religione tuttavia soprav¬vive, grazie all'esperienza mistica, pur mutando contenuti psicologici e culturali, assumendo un ruolo più “sotterraneo e nascosto”.
Le posizioni più diffuse tra i sociologi attuali sul significato e la presenza del sacro nella società odierna, in definitiva, sembrano consigliare una certa prudenza nell'affermare la scomparsa del sacro, essendo sempre presenti altre strutturazioni del significato del mondo che svolgono la medesima funzione della sacralità.
Come si vede, una caratteristica comune alle varie voci che entrano in questa discussione è quella di cercare il significato culturale del sacro, per scoprire e determinare quali realtà vengono definite me¬diante questo concetto. In questo modo è possibile compiere un'ana¬lisi della nostra società, per vede¬re, in essa, quale altro concetto (se non è più quello di “sacro”) svolge le medesime funzioni. Ma a questo punto rimane irrisolto il problema se il sacro sia un fenomeno sostan¬ziale, particolare, distinto, o piut¬tosto una modalità di strutturazio¬ne di varie realtà che mutano col passare del tempo, la cui connes¬sione tuttavia corrisponde sempre alla logica sacrale.
A questo proposito non sarà inutile ricordare che spesso il sacro si autodefinisce tale in modo nega¬tivo, indiretto, attribuendo cioè ad altre realtà il carattere profano. E dunque da tenere presente. a que¬sto proposito, un problema di fon¬do: non è detto che la realtà del sacro sia esaurita dal suo concetto, oggi in uso tra i sociologi, così come non è detto che ogni fenomeno umano venga esaurito dal concetto e dalle articolazioni linguistiche che ad esso si riferisco¬no. Si possono compiere analisi del sacro particolarmente fruttuo¬se e stimolanti qualora si tenga presente che l'esperienza dell'uo¬mo è unica, e che molteplici sono le vie attraverso cui essa può esse¬re interpretata. L'approccio socio¬logico dovrebbe mirare ad enu¬cleare queste varie espressioni sto¬rico-culturali, e a salvaguardare tuttavia l'unitarietà dell'esperienza umana ed i suoi rapporti dialettici con la verità, con la totalità del fenomeno stesso.
Uno studio completo della crisi religiosa dovrebbe distinguerne attentamente i piani: quel¬lo della religiosità in genere, quello delle religioni istitu¬zionalizzate in chiese, quello del cristianesimo in genere, quello del cristianesimo cattolico.
Per designare – in senso sia positivo che negativo – la peculiare natura della crisi generale della religiosità si e posto in evidenza, negli ultimi 25 anni, un concetto dai limiti semantici piuttosto fluttuanti e imprecisi, quello di “ secolarizzazione ”.
All'interno del fenomeno della secolarizzazione così come lo si è definito, occorre distinguere correnti parziali che non ne abbracciano tutta l'ampiezza, anche se spesso tali correnti vengono identificate con il processo nel suo in¬sieme. Mi riferiscono a ciò che viene designato con i ter¬mini, piuttosto barbari, di “ demagizzazione ”, “ desacra¬lizzazione ”, “ demitizzazione ”.
“ Demagizzazione ” designa la tendenza, propria della cul¬tura scientifico-tecnica, a eliminare i resti di mentalità magica ancora presenti nei settori sociali più educati. La mentalità magica crede che certi fenomeni biologici, psi¬cologici, patologici, climatologici, storici, ecc., siano il risultato dell'intervento di forze sovraumane, la cui realtà intima sarebbe incomprensibile. L'elemento primitivo, quin¬di, viene considerato molto inferiore agli altri elementi della natura: tuttavia in una cultura così avanzata come l'egiziana vediamo che l'uomo prototipico, il faraone, adora il serpente, il bue, il falcone, la leonessa, il sole….
Anche se inferiore alla natura, l'uomo magico crede di avere scoperto alcuni strumenti per difendersene e per approfittarne: sono i sortilegi, parole e gesti che, per connessione accidentale o simbolica, sembra che possie¬dano un influsso sulle forze benefiche o malefiche. La ma¬gia, quindi, è antenata non della religione ma della scien¬za: con la scienza condivide il desiderio di comprendere e di dominare il mondo. Ma – ecco la differenza – agli occhi dell'uomo scientifico la natura è inferiore all'uomo, misura di tutte le cose, è oggetto di conoscenza e di dominio; e i segreti che ancora essa conserva, si sveleranno, è questione di tempo. L'uomo della cultura scientifico-tec¬nica si impone alla natura non mediante sortilegi arbitra¬ri, ma mediante relazioni di causalità sperimentalmente comprovate, soggette a leggi, razionalmente comprensibili, per lo meno in parte. E’ vero che i vuoti lasciati dalla scienza e dalla tecnica nella comprensione del mondo e nella protezione dell'uomo stanno oggi spingendo verso nuove forme magiche (dai curatori agli astrologi, passando per le pseudoapparizioni e gli pseudomiracoli) ma nel¬l'insieme l'allontanamento dalla cultura magica è un fatto innegabile.
Il termine “ desacralizzazione ”, al contrario, designa la perdita della capacità di sperimentare il sacro in senso stretto, vale a dire la religione.
Si tratta, comunque, anche se alcuni fanno con¬fusione, di un fatto completamente diverso dal preceden¬te, come sono diverse – anzi opposte – la magia e la religione: la prima cerca di maneggiare l'intera realtà, la seconda si impegna alla venerazione del fondamento ultimo di questa realtà. La maggior parte dei sociologi della religione pensano che la nostra civiltà stia generando un processo non soltanto di demagizzazione ma anche di desacralizzazione. L'accesso alla esperienza religiosa in tut¬te le sue modalità sembra più difficile all'uomo attuale che agli uomini delle culture precedenti. Non è facile pronosticare se si tratti di un fenomeno passeggero o duraturo. Le cause che influiscono nelle presenti difficoltà religiose sono molteplici.
La scienza parte dalla ipotesi che tutta la realtà sia conoscibile; se ancora esistono pro¬blemi non risolti lo si deve non alla natura dell'oggetto, ma alla provvisoria carenza di un adatto metodo di in¬vestigazione. Per l'uomo medio questa ipotesi di lavoro scientifico equivale alla scomparsa del mistero: l'uomo medio confonde lo svelamento indefinitamente progres¬sivo dei problemi concreti del cosmo con l'impossibile svelamento degli ultimi perché. Il mistero si converte in una semplice somma di problemi. La spinta inconscia di tale confusione è la paura dell'inconoscibile: tranquillizza il pensiero che, se non oggi, un giorno sapremo tutto e controlleremo tutto.
La civiltà tecnica, da parte sua, ha strumentalizzato il mondo: le cose non sono, servono. Viviamo in un uni¬verso di utensili fabbricati dall'uomo per un uso deter¬minato che, a sua volta, tende spesso a un'altra finalità più ampia in una serie successiva di riferimenti in cui la do¬manda sul fine ultimo si diluisce e si maschera; e sono sempre di meno quelli che se la pongono. Ci siamo abi¬tuati a proiettare questa mentalità strumentale su tutta la realtà. L'aspetto più decisivo della nostra cultura è il predominio del pen¬siero astratto. Ad una cultura dominata dalla contem¬plazione, dal contatto immediato con gli esseri singolari – la cultura che ancora viene difesa da artisti, poeti, pensatori, monaci di Oriente e di Occidente – è succe¬duta una cultura dominata dal concetto, utensile creato per manipolare la natura. La più grave conseguenza di tale astrazionismo è la incapacità di aprirsi all'altro sta¬bilendo relazioni interpersonali profonde, principale cam¬mino per l'accesso al mistero dell'essere.
Ma oltre che strumentale e astratta, la nostra cultura è anche urbana. Gran parte degli esseri umani (certamente quelli che determinano le linee della cultura) vivono abitualmente lontani dalla natura. Quando prendono contatto con la natura durante il fine-settimana o le vacanze, la trattano come uno strumento per riposarsi o per di¬vertirsi. Proprio quegli esseri naturali che non sono stati fabbricati per un uso sono quelli che rinviano più facil¬mente agli inquietanti interrogativi del come e del perché. La nostra cultura, infine, è anche (forse questa è la sua chiave ultima) una cultura di evasione. Mai come oggi l'uomo ha avuto a disposizione mezzi e strumenti per evadere da ogni preoccupazione, dal mistero stesso della esistenza. Lavoro che assorbe nell'azione, “ divertimenti ”, “ passatempi ” (spettacoli, sport, radio, Tv, riunioni so¬ciali, viaggi, ecc.): i nostri contemporanei possono vivere quasi sempre “ fuori di sé ”, alienati dal fondo dell'esi¬stenza.
In quanto al termine “ demitizzazione ” se ne fa uso nella accezione ristretta che designa la difficoltà di accettare che il sacro, il divino, penetri e agisca di¬rettamente all'interno del mondo: una difficoltà che gli uomini di oggi sentono ogni giorno di più.
AMBIVALENZA DEL SACRO E AMBIVALENZA DELLA PSICHE
In sintesi possiamo dire che esistono quindi alcuni elementi do¬cumentari circa il fenomeno religioso nelle sue manifestazioni, am¬piamente attestati nelle più diverse società umane, in base ai quali possiamo affermare che il “sacro” è vissuto come una presenza am¬bivalente. Da un lato si manifesta come mysterium tremendum, tu¬multuare di acque, forza vitale distruttiva e generatrice di vita ad un tempo, dall'altro si manifesta come realtà luminosa, celeste, origine e fondamento dell'ordine del cosmo e della società umana, che prende il posto del caos primigenio. Queste immagini sono crea¬zioni spontanee, che hanno ricevuto poi diversi e molteplici signifi¬cati, legati alle condizioni storiche dei gruppi sociali nei quali si sono prodotte, ma che conservano tuttavia una loro significatività autonoma connessa con la radice antropologica di tali esperienze. In altri termini queste creazioni simboliche non sono qualcosa di pu¬ramente contingente, di gratuito, di arbitrario, di astratto, pure fa¬vole senza senso, ché altrimenti non si ritroverebbero, quale motivo centrale di tante religioni, in tutto il mondo. Esse sono simboli che rimandano ad un'esperienza profonda, comune ai diversi popoli che le hanno prodotte, e come tali chiedono di essere interpretate.
A questo punto appare con evidenza l'affinità che queste imma¬gini del mito hanno con quelle coscientemente elaborate dalla psi¬cologia del profondo per interpretare i contenuti dell'esperienza psi¬chica dell'uomo. L'accostamento del mysterium tremendum del sa¬cro, nei suoi aspetti vitalistici, oscuri, e come fonte della vita e della morte, alla raffigurazione dell'inconscio, all'Es, come sede di Eros e di Thanatos, e cioè delle pulsioni generatrici tanto della vita quanto dell'aggressività distruttiva, e l'accostamento del simbolo lu¬minoso della divinità che apporta l'ordine nella natura e fra gli uomini ed apre ad essi, come detto nella Bibbia, la possibilità di distinguere il bene dal male all'immagine dell’Io, della coscienza che controlla l'inconscio, e permette all'uomo di agire in modo vo¬lontario e liberamente, secondo la propria legge, tali accostamenti non sembrano arbitrari o forzati. Sta di fatto che Freud ha fatto ampio ricorso alle immagini simboliche dei miti, per approfondire la conoscenza della psiche umana, e ancor più Carl Jung, con la sua teoria sugli archetipi che, nonostante certe forzature, nasce, come la teoria di Freud, dall'elaborazione concettuale di un'esperienza autentica e profonda. Si può ragionevolmente sostenere quindi che i grandi miti delle religioni antiche abbiano, con questi moderni simboli della autocoscienza dell'uomo che sono le immagini della psicologia del profondo, una matrice comune, data dall'esperienza diretta e vissuta dei fenomeni fondanti della psiche umana. I con¬cetti della psicologia quindi possono essere utili, anche se non sono certamente esaustivi, nell'intendere il senso dell'esperienza religio¬sa come universale umano, che risulta dallo specifico modo di essere della psiche dell'uomo, così come il patrimonio di simboli delle religioni può essere d'aiuto per approfondire la conoscenza delle operazioni in cui l'uomo si esprime come sede dell'attività cosciente e volontaria.
In questo accostamento non vi è pertanto nessuna pretesa ri¬duttiva. Con esso non si vuole cioè circoscrivere il significato com¬plesso che ha una religione in senso storico con la problematica della psicologia del profondo, che ha come campo di ricerca la dinamica della psiche individuale. In una religione vi è infatti qualcosa di più e di diverso della pura esperienza interiore, che può essere indicata, in primo luogo, in quegli sviluppi creativi che muovono sì dall'e¬sperienza intima e privata del sacro, ma hanno come oggetto una nuova visione del mondo, visione che si enuncia attraverso la pre¬dicazione profetica, uscendo così dal chiuso di un animo umano, per farsi patrimoni