Un Presidente in nome del Papa Re

Di Michele Mezza

Pensavo piovesse, ma non che grandinasse. In questi mesi non ho risparmiato critiche, anche salaci, al gruppo dirigente del PD. Ma ieri, lo confesso, ho pensato che dopo la lezione Marini, attorno all’ancora di Prodi , il partito tentasse un’operazione di autosalvataggio. Invece è stato auto affondamento.

Il voto è servito alle diverse bande per approfittare dello sfacelo. 100 franchi tiratori sul fondatore del partito, dopo il fallimento delle precedenti aperture, sono più di un agguato, sono la Guyana: un suicidio di massa.

Ora il PD non c’è più. Ma è mai iniziato? Questa è la domanda. E più in generale: la sinistra ha mai potuto contare su una credibile identità e cultura politica dopo il disfacimento del PCI e del suo mondo?

Questa è la domanda che va distribuita su tutto il fronte su cui si è dislocata la sinistra dopo l’89: Ds, Rifondazione, schegge varie, e ora Sel e PD.

Siamo ad un tornante non dissimile a quello che, mille volte più in piccolo, si ebbe, alla fine degli anni 70 con il gruppo della sinistra extraparlamentare. Qualcuno forse ricorderà: quando la strategia politica coincide con il destino personale dei singoli dirigenti oltre il fallimento subentra la miseria morale. Tale fu allora il destino di quella stagione, tale è ora l’epilogo di un esperimento inconcluso.

L’accartocciamento attorno al Quirinale è infatti la conclusione di un itinerario fatto di improvvisazioni e di scorciatoie velleitarie.
Un partito senza cultura condivisa, senza fatica di una discussione, senza un progetto sociale, senza un quadro internazionale e senza la curiosità del nuovo. Un partito di riciclaggio, dove i vecchi dirigenti cercavano di improvvisarsi nuovi e i vecchi di farsi come i precedenti.

Un partito che faceva le primarie come un congresso interno , e i congressi come i festival dell’Unità. Che pensava di vincere le elezioni solo perchè gli avversari erano impresentabili, e di governare solo perchè i propri aderenti erano più eleganti e cosmopoliti.

In questo quadro non ci si è accorti che le elezioni si erano perse e non vinte, seppur di poco, che mancava un’idea di alleanze, che non si riconosceva una base sociale coerente con il proprio disegno politico. Che si parlava di produzione industriale ad un partito di impiegati pubblici, si celebrava il lavoro ad un ceto di mediatori, che si elucubrava di innovazione covando in cuore l’avversità alla rete.

Questa sinistra è estranea al paese, o meglio assomiglia alla parte meno vitale dell’Italia. Lo dobbiamo riconoscere. Renzi, Grillo, la Lega, i frammenti, belli o brutti, di una razza rude e pagana che corre sono tutti fuori dal nostro perimetro, dai nostri ricordi, dalle nostre fotografie. Vogliamo capire perchè? O continuiamo a valutare i presidenti e gli elettori in base ai quarti di nobiltà radicale che esibiscono?

Ieri Vespa esibendo un iPad gridava che “questo avvelena la politica”. E una considerazione miserabile. Non sono i tweet che arrivano ad intimidire un gruppo dirigente, ma è la fragilità e l’inconsistenza di un gruppo di capi improvvisati e cooptati che rendono ogni stormir di fronda una minaccia. Fossero pure telefonate o telegrammi.

Bisogna ripartire dall’idea di rappresentanza: chi vogliamo organizzare e per che cosa? Chi pensiamo che siano oggi gli agenti di libertà e progresso in questo paese, e chi devono essere i ceti da garantire per l’equità. Le due operazioni oggi sono disgiunte. Questa è la vera differenza rispetto al secolo scorso: ieri il motore del cambiamento erano direttamente i ceti dell’equità, oggi il cambiamento è promosso da settori che poi usano l’equità per vivere in un paese migliore.

La rete ne è il luogo di cultura e di reciproca identità. Non è una minaccia.

Come diceva Manfredi al papa, nel film di Luigi Magni in Nome del Papa Re: Santità qui non è che finisce tutto perchè arrivano i piemontesi, qui arrivano i piemontesi perchè è finito tutto.

Prima lo capiamo e meglio è, anche per il Quirinale.


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