Domani parteciperò a Pescara a un convegno organizzato dall’Associazione “Articolo 3-liberi e uguali” su un tema che, all’apparenza, potrebbe sembrare tutto teorico e che, invece, ha notevoli implicazioni reali per chi, come me, ha deciso di dedicare alla politica una parte importante della propria vita e del proprio tempo. Il tema è, quindi, quello del ruolo dei cattolici nella vita pubblica che, come sa chi mi segue, mi coinvolge direttamente. Sapete che non è la prima volta che intervengo a convegni di questo genere, che il tema dei cattolici in politica mi appassiona perché mi consente, anche ascoltando quello che hanno da dire gli altri, di delineare un percorso che non sia in contraddizione tra la doverosa laicità dello stato e, per quanto mi riguarda, l’altrettanto doveroso impegno da cattolico.
Il convegno inoltre, offre, proprio nel titolo, due spunti assai interessanti, “Dall’apparire all’essere, dal potere al servizio”, proprio a indicare il ritorno alla mission originaria per ogni politico, quello cattolico in particolare, contro la degenerazione e il malcostume.
Parto dal vangelo, “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, e inverto volutamente i termini del ragionamento perché voglio sottolineare che la laicità dello Stato è un valore imprescindibile, anche e soprattutto per chi crede. A guidarci verso una gestione della cosa pubblica laica è la Costituzione da cui ricaviamo che il nostro non è uno stato confessionale. Per questo, quando dobbiamo prendere decisioni dobbiamo essere sì guidati dai valori in cui crediamo, ma dobbiamo ricordare che legiferiamo per tutti: cattolici, atei, cittadini che professano altre religioni, e che tutti hanno la stessa dignità e devono potersi riconoscere nello Stato e nelle sue leggi. Questo discorso vale oggi ancor più che nel ’46 perché ora abbiamo milioni di nuovi cittadini che professano altre religioni. Essi devono potersi sentire italiani a prescindere dal colore della loro pelle, dalle idee e dalla religione e devono avere la possibilità di esprimere la propria cultura come meglio credono senza limitazione della libertà che, come diceva Don Sturzo, deve venire prevalentemente dalla propria autodisciplina e dal rispetto verso le idee degli altri, non da restrizioni imposte dall’alto. Per questo il legislatore deve tenere presente il profilo generale e non particolare dei provvedimenti che approva. Ed è per questo che considero assai positivamente i comportamenti che i cattolici al potere hanno tessuto nel corso dei decenni.
Tanto per fare un paio di esempi trovo che fu un salto di qualità importante quello delle classi dirigenti del Paese, a maggioranza cattolica, che negli anni 70 vararono la legge Baslini-Fortuna sul divorzio e, ancor più importante quella sull’aborto che ottenne due risultati fondamentali che hanno cambiato la cultura dell’Italia: si superarono le ipocrisie degli antiabortisti oltranzisti che preferivano l’attività clandestina delle mammane e si misero al centro dell’interesse generale della politica, per la prima volta nella storia in Italia, la libera autodeterminazione delle donne, fino a quel momento relegate spesso in un ruolo subordinato nella vita sia privata che pubblica. Due leggi che, se si fosse legiferato nella visione esclusiva del cattolicesimo, non sarebbero mai nate.