Le trasformazioni del linguaggio politico e delle modalità produttive hanno spinto studiosi di ogni risma a valutare come definitivamente tramontate le famigerate “vecchie categorie” del passato: non più socialismo, social-democrazia o conservatorismo, ma una politica sorretta solo dalla valutazione del fatto, con una serie di opzioni pragmatiche da mettere in campo. Questa logica regge poco: intanto, la selezione dell’opzione pragmatica risponde pur sempre a criteri teorici e ideologici non verificabili prima della realizzazione degli effetti di quella opzione. Secondariamente, la politica svuotata dal sostrato emozionale, persino identificativo, di largo respiro ha dato vita al cortocircuito delle grandi coalizioni, dei governi tecnici o, all’opposto, dei nuovi plebiscitarismi: la “grande coalizione” scavalca le remote ideologie di riferimento dei due blocchi, il “governo tecnico”, esercitando un ruolo neutralistico di amministrazione e contabilità, supera le secche del dibattito tra militanze, il “leaderismo” estremo prescinde dalle ideologie e si consola e rifugia in una sorta di ideologia dell’apprezzamento sulla figura del capo. Una politica priva di ideologie, nel senso: una politica priva di fondamenti ideali, ammesso che esista e non sfrutti il crollo delle ideologie come travisamento delle proprie degenerazioni, produce più ombre che luci. Vero è, invece, che le categorie su cui si adagiavano le ideologie (e anche le rendite di posizione che promanavano dal rivendicare quelle ideologie) sono consumate e mai come oggi logore: agitarle pedissequamente è un furto di democrazia quanto la loro negazione. Il ceto operaio ancora esiste, anzi: affronta drammi che la gius-lavoristica degli anni Settanta e Ottanta non poteva nemmeno prevedere, ma non gli si può dare risposte rovistando le biblioteche di sezione e non guardando il presente, o ancora peggio: col copia e incolla dei vecchi testi di riferimento. La stessa idea di “flessibilità” del mercato del lavoro è agitata come viva dai fautori di politiche liberiste; ma anch’essa è ormai esangue, nella misura in cui non è più il fluidificante eccezionale che libera risorse straordinarie, altrimenti non attivabili. È, al contrario, divenuta l’ambiente fondamentale di applicazione dei modelli di produzione.La nostra prima nozione di “flessibilità” già non esiste più…
Anche la politica ecclesiastica ci mostra antichi schieramenti alle prese con lessico e argomenti quasi mai aggiornati alla realtà. Il vero dialogo non è più solo tra laici e cattolici o, in modo più generale, tra credenti e non credenti, come se gli uni e gli altri fossero eserciti di antica disciplina e non soggettività (spesso individuali, altrettanto spesso organizzate collettivamente) con almeno un fondo di valori, prassi e diritti azionabili comuni. Come sembrano consumati il capitalismo ottocentesco e l’arrocco di un’ideologia del mercato basato sulla produzione di base, parallelamente all’elefantiaco sindacalismo novecentesco, così sembrano tramortiti i dogmatismi estremi (le pretese di legge sulla base di un credo, anche quello di non averne alcuno) e le estreme pretese di indifferentismo e relativismo. Anche l’idea dell’assolutismo morale, d’una morale che da dominante e di prassi si fa cogente e di regole, va respinta; anche l’idea che vada bene tutto e che non possa darsi alcun tipo di indirizzo, di senso, di rispetto, di valore, a tecnica, progresso, consumo, ha dimostrato di avere poche possibilità attuative e, in concreto, più limiti che meriti. Per tali ragioni, non è particolarmente significativo discutere dei privilegi della Chiesa, ergendosi a vendicatori di Costantino, né, all’opposto, pensare di limitare l’aborto esclusivamente poggiandosi sul Magistero. La verità è che, se una massa di individui è sempre meno collocabile in un ceto preciso, identificabile sulla base della funzione prima che sul reddito, altresì è impossibile ragionare di politica religiosa e diritti di libertà vestendosi da alfieri intoccabili della propria pretesa di certezza. Si ragiona da e tra diversamente credenti, identicamente interessati a prospettive migliorative e di riforma.
Domenico Bilotti