Un ricordo pieno di nostalgia e di sapori
Il primo viaggio. Atene “miserabile” ma presente a sé stessa e profumata di lucumades.
Ero innamorato la prima volta che sono andato in Grecia. Ma anche l’ultima volta lo ero, e credo lo sarò per sempre. Ho un segreto però: quello di esser penetrato nella “νοοτροπια” del popolo. Il termine tradotto in italiano, “mentalità”, non rende appieno il significato della parola. E’ di più.
Al mio primo viaggio, ricordo, i muri di Omonia erano tappezzati di manifesti con la faccia di Panagulis morto in un incidente stradale e la scritta: «Panagulis vive (zei)». Era il 1976. La commozione che aveva preso alla gola gli studenti in piazza, quel 6 di maggio, non la scorderò, come non scorderò le parole di Ritsos sulle quali appoggiarono il corpo di Alekos: «Bandiere ora ti vestono, figlio mio, tu dormi». Allora Atene era ancora più “miserabile” ma mi sembrò presente a sé stessa e profumata di lucumades. Possedere l’automobile in Grecia era un lusso. I blue geans firmati Armani, una chimera. Mi sentivo più che altro un americano che, con la sua A 112 abarth, girava per Sintagma con il suo migliore amico Andreas studente di ingegneria in quel di Napoli.
La cosa veramente strana non fu quella di notare quante cose le mancassero nei confronti dell’Italia, ma quante cose mancassero all’Italia nei confronti della Grecia per averle perse per sempre. Il gusto eternamente benevolo e patriarcale della famiglia mi affascinava. Mi affascinavano l’estrema manualità delle cose di ogni giorno, camminare a piedi, il marmo bianco delle cucine, sbucciare le patate, portare a cuocere la carne al forno, aspettare in fila un pullman sotto il sole di agosto ecc. Ma essere soccorsi appena tornati in casa stanchi da una mamma con un bicchiere d’acqua fresco ed un lucumi (dolcetto zuccherato) augurando la buona salute, fu per me il miglior gesto, la cosa più piccola ed al tempo stesso più grande che mai avrei potuto immaginare. Rivivevo un neorealismo in bianco e nero che trasudava di odori umani e saponetta, baffi ed anatolia, di taverne e sigarette lecite, di amori e passioni nude e crude, di problemi e dispiaceri sui balconi delle case assolate. Provenivo da una realtà già fortemente mistificata, piena di immondizie agli angoli delle strade, di acqua non più potabile dal rubinetto, di debiti, per non essere colpito da quella vita. Mi venivano in mente i racconti di mio padre e dei suoi tempi, lì trovavo la sceneggiatura fresca nella quale allestirli e farli rivivere.
Imparai quasi subito la lingua ed in ciò gli amori giocarono un ruolo fondamentale. Mi inoltravo piano piano in un mondo privo di “deodoranti” e pallettes, nel gesto definitivo e sensuale della mediterranea bruna e femmina. Percorrevo le strade del rebetico (genere musicale), “ascoltavo” la faccia di Mitzias. Recepivo quel tono di voce innocuo, lungo e morbido come un cuscino, tiepido come una piastrella al sole, bianco quanto un lenzuolo invaso dal profumo del sole, come una lama indolore che mi feriva la gola ed il petto teneramente. Tra i “mi xirotera” (che non avvenga il peggio!) ed i “na pume” (intercalare, come diciamo), allargato sulle sedie dei caffè nion, ho assaggiato quasi senza soluzione di continuità il sapore di una Ellade gustosa, simbolica. Essa per molti anni ed ancora oggi è spiaccicata sulla mia lingua come il cioccolato si intrufola e nasconde tra le papille. A contatto perenne con il gusto. La mia analisi è di parte. Chi è innamorato è sempre di parte ma queste sensazioni sono state e sono, intatte ed immutate.
Savvopulos cantava “Ta trapezachia exo” (i tavolini all’aperto) ed io sguazzavo sollazzandomi in una marea di amici sani e greci. Mi sono sempre sentito a casa, mai un attimo di smarrimento. Ero diventato un tubetto di un coboloi, (passatempo che si tiene nelle mani a forma di corona) avevo ormai acquisito la fortuna di assaporare non tanto i posti bellissimi, spiagge, mare e via discorrendo, sapevo che quella “νοοτροπια” mi era entrata dentro e che le ciglia folte delle ragazze, la mancanza di una dracma in tasca, una cartaccia a terra, non sarebbero stati un problema.
Ancora oggi provo le stesse sensazioni. Non è cambiato niente se non nell’aspetto europeizzante delle cose. I ragazzi mettono in pratica le noiose lezioni dei frontistiria (dopo scuola di lingue straniere) dando sfoggio di lingue straniere ma è sempre il buzuchi (strumento caratteristico simile al mandolino) il suono per eccellenza. Quella corda è sensibile all’animo mio, figuriamoci per quello di un greco.
Una notte, una notte fa a Salonicco, le note di una canzone antica che imparai a conoscere mi si sono infilate nell’animo uscendo dalla radio della stanza d’albergo in cui dormivo: «ena vradi pu evreke, pu evreke monotona…( una notte che pioveva)» diceva. Che bellezza, mi ha ricordato subito Vagghellis, Spiros, Cristos, Elias, Costantinos, Ntina, Angela, Nikos, Kula, Popi, Ntinos, Dimitri, Ragna, appoggiati alla ringhiera del balcone pieno di panni stesi, il sapore dello tzatzichi (formaggio fatto con yogurt ed aglio) ed una marlboro morbida in bocca. Avevo 25 anni.