Ho letto con estremo interesse il recente testo di Luca Sofri (“Un grande Paese. L’Italia tra vent’anni e chi la cambierà”, Milano, 2011); in esso, si rinvengono degli spunti molto importanti sull’articolazione della vita politica nazionale. Mi pare di capire che due questioni abbiano un ruolo oggettivamente più significativo delle altre: l’elaborazione di una cultura comune, non disfattista né predatoria, non disonesta né rassegnata, i meccanismi di formazione e selezione delle classi dirigenti. Su entrambi gli aspetti mi sento di condividere le osservazioni del direttore Sofri: il primo obiettivo significa, ovviamente, riconoscere che lo scetticismo è un freno alla partecipazione politica e che l’indignazione per “politicanti tutti uguali” può agilmente alimentare, in un circolo vizioso, il mito raccogliticcio del politico “uno di noi” (se non peggio). Il secondo traguardo comporta, altresì, quantomeno l’individuazione di un progetto politico: fare, si, ma far qualcosa di condiviso, di utile, di durevole e, perciò, di alternativo ai canoni contemporanei del successo che puntano su immediatezza e coazione a ripetere, piuttosto che sulla durevolezza. Sofri, tra l’altro, non indugia nella consueta bipartizione tra Paesi culturalmente protestanti e Paesi di forte tradizione politico-gerarchica cattolica. E fa bene: perché anche non questionabile la differenza, anche abissali le distanze in tema di legislazione civile tra le due classi di Paesi, questa divisione sembra essere un alibi per non riformare (da una parte) e un merito da continuare a difendere (dall’altra, da chi, cioè, non solo non vuol riformare, ma se ne fa un vanto e non un cruccio). Se approfondissi ancora gli aspetti che risultano convincenti nell’analisi di Luca Sofri, il testo sarebbe troppo lungo e avrebbe una forma elogiativa che il franco e proficuo dialogo non può, per definizione, avere. Mi concentro, anche per queste ragioni, sulle parti per cui ho dissentito o su quegli argomenti che mi sembrano sviluppati in forma più lacunosa. 1-Non è pensabile che il miglioramento culturale del Paese debba passar per forza da una rielaborazione del concetto di “patria”. Non perché questo concetto sia sorpassato (nella sua accezione storica probabilmente lo è, per davvero), ma perché il tema della “patria”, del tratto unificante tra classi di cittadini, si presta, a mio avviso, più a un’analisi fattuale (mutamento demografico, prerogative degli Stati nazionali, manifestazioni esteriori di un sentire comune) che controfattuale. 2-Una delle unità di misura di un Paese può esser rinvenuta nel rapporto che esso riesce ad instaurare con i propri emigranti: il ruolo che ad essi riconosce, anche in via sostanziale, per la diffusione di una cultura nazionale, la capacità di favorirne il ricongiungimento, l’analisi delle necessità storiche che hanno determinato le migrazioni, persino i trattamenti che gli immigrati hanno dovuto subire. 3-Sono certamente convinto che il successo di Obama, nelle elezioni presidenziali americane, sia stato un fatto di rilevanza generazionale. Un successo nato da un fenomeno politico-mediatico e favorito da quella classe di attivisti, bloggers, lavoratori e opinionisti che ha contribuito a far del candidato un fenomeno politico-mediatico. In Italia, meccanismi similari, nello stesso spazio del centrosinistra, non sono pochi. Si poteva aggiungere qualcosa in più della, pur onestissima e chiara, nota a pié di pagina per spiegare che: si, Obama ha vinto anche attraverso l’immaginario di quella generazione, di quella piattaforma politica, ma i provvedimenti presidenziali adottati (ben al di là di un giudizio sulla loro efficacia o meritevolezza) vanno spesso nella direzione opposta. È un problema, beninteso, che riguardava Blair, riguarda Clegg e Cameron e forse ha a che fare anche col relativo successo di Veltroni e Vendola in Italia. 4-Non mi ha convinto molto la difesa della bandiera, per quanto raffinata e culturalmente motivata. Non credo che l’assorbimento (talvolta piuttosto rustico) del nostro tricolore nella simbologia destrorsa e la conseguente espulsione dall’orizzonte simbolico della Sinistra abbiano rappresentato un vulnus così determinante nella nostra Storia. Ritorno alle intelligenti parole di Sofri sulle celebrazioni dell’anno in corso per l’unificazione: posso sentirmi parte del mio Paese, provare a riconoscerne tutti i meriti nell’esperienza unitaria, ma allo stesso modo respingere la retorica bipartisan su festeggiamenti per i quali tutti erano scettici fino al minuto prima. 5-Non ritengo la campagna elettorale di Veltroni alle Politiche del 2008 una testimonianza alta di una Sinistra che cerca un suo spazio e una sua realizzazione odierna. Quella campagna elettorale aborriva il termine “Sinistra” come quello “Berlusconi”: del secondo, con contorti giri di parole, tuttavia parlava continuamente; del primo quasi affatto.
Parzialmente setacciate le critiche, ringrazio, però, Luca Sofri di due brevi sezioni del testo, tra le più belle e (temo) tra quelle che più passeranno sotto silenzio: le citazioni di Gobetti -con un primo richiamo alla sua figura storico-intellettuale; il bel contrappunto alla tesi, spesso rappresentata da Polito, tra gli opinionisti politici, ma in realtà assai più diffusa, secondo cui il valore dell’Io è in fondo più opportuno del “Noi”, giacché esso necessariamente debba implicare la belligeranza con un “Voi” maggioritario. Ha ragione Sofri: pur questo impianto talvolta idoneo a spiegare percezioni comuni nell’elettorato, esso pare figlio di un pensiero schmittiano fuori tempo massimo. E l’aggravante del vittimismo.