Mentre Don Franco Tassone celebrava la Messa nella cappelletta della comunità, e ci sollecitava a fare bene le cose soprattutto per i più giovani, mi ha attraversato un pensiero, un dubbio si è insinuato, a farmi riflettere su quel che a volte diamo per scontato.
Su una rivista alcuni giorni fa, qualcuno ha scritto che andare in una scuola e dire “oggi parliamo di bullismo o raccomandare di non farsi le canne, è un atteggiamento destinato all’insuccesso”, perché a suo dire bisogna partire dal positivo per poter disegnare una breccia.
Effettivamente c’è un largo uso di terminologie più o meno azzeccate per tentare di richiamare quella attenzione necessaria a reinventare una progettualità educativa, ma a volte questo dispiegamento di intenti confonde gli obiettivi comuni, figuriamoci l’agire comune attraverso sensibilità differenti.
In questi anni ho sempre pensato che fare prevenzione sia un dovere, una consapevolezza obbligante a non accettare la sporadicità di un intervento, optando invece per una messa in rete di professionalità, impegno e responsabilità.
Lotta alle cose scontate, alle utopie da gioco d’azzardo, mi hanno portato a incontrare nelle scuole, negli oratori, nelle comunità, tanti ragazzi, convincendomi una volta di più che occorre uscire dall’angolo con una comunicazione diretta, attraverso una informazione che è di per sé terapeutica, per non dire catartica.
Il dubbio che mi ha assalito sta nella capacità di raccontare la mia brutta storia iniziata appunto in una classe anonima, a fare il bullo, a tessere omertà e prevaricazione, colorando il tutto di falsa solidarietà.
A fare canne e trasgredire, sniffare cocaina e impugnare una pistola, a farmi male e fare del male agli altri, i più deboli, gli innocenti.
Non so se occorre partire dal positivo o dal baratro delle esistenze per riuscire a creare una nuova possibilità, di certo occorre dare verità alla storia vissuta, e occorre farlo soprattutto da dentro l’agenzia educativa per eccellenza, la scuola, dove l’adolescente scommette con la morte e neppure lo sa.
Occorre farlo nelle aule, nei corridoi, nei cortili, dove si picchia duro per apparire, dove si fumano spinelli per stare nel recinto degli imbizzarriti, dove si incendia, si allaga, si scalano muri e tetti, nel tentativo di nascondere il proprio malessere, per piombare a terra e morire con la voce strozzata in gola.
Occorre fare un passo avanti e non rimanere curvi sulle stupefazioni, ma “intraprendere un percorso ostinato e contrario”, mai indifferente alla follia che diventa banalità.
Dentro una scuola, in una classe, mentre docenti e genitori sulla difensiva attaccano a testa bassa, una ragazzina con la mano alzata, ci racconta delle gomitate prese alla scuola materna, e dell’ultima ricevuta stamattina dallo stesso ragazzino, solo che oggi frequentano entrambi la quarta elementare.
Andare in una scuola a parlare di bullismo, di droga, di devianza, e partire alla ricerca del bullo che non è un eroe positivo, avvicinandolo alle vittime del silenzio complice, con l’urto della propria storia, muovere un’emozione, una scintilla che durante l’incontro con gli studenti, consente a una ragazza di uscire dall’ultima fila, e puntare il dito:”io ho denunciato un bullo, ma voi mi avete esclusa, messa in fuori gioco per un anno, e non sapete che quel ragazzo è venuto a casa mia, e mi ha detto grazie”.
Queste sono le emozioni che ci fanno sentire reciprocamente meno distanti.