A porre la questione morale all’interno dell’Italia dei Valori è De Magistris, insieme a Sonia Alfano e Giulio Cavalli. Quello stesso De Magistris rinviato a giudizio per omissione di atti di ufficio perché non avrebbe indagato nonostante l’ordine del Gip, su un caso di collusione tra magistrati di Lecce e Magistrati di Potenza con ipotesi di reato gravissime che vanno dall’associazione per delinquere all’estorsione. Se il buon giorno si vede dal mattino, allora sappiamo già che tempo farà. Fermo restando le garanzie di legge in favore di chi è innocente sino a sentenza definitiva (personalmente lo spero di vero cuore) l’on. De Magistris doveva autosospendersi dalla carica volente o nolente in quanto il codice etico del partito lo impone. Antonio Di Pietro lo ha difeso a spada tratta invece ponendo una deroga a quanto egli stesso prescrisse. Il buon De Magistris ne ha per tutti invece, parla delle ultime vergogne di Razzi e Scilipoti, dello scandaloso caso Porfidia, del fumoso Pino Arlacchi dimenticandosi di parlare di sé stesso rinviato a giudizio per fatti gravissimi per uno che era all’epoca un magistrato. Il problema sollevato in questi giorni circa un decadimento dell’Italia dei Valori è artificioso e finto. Si cerca di accusare il Presidente di scegliere male i propri candidati i quali sistematicamente, dopo essere stati eletti, lo abbandonerebbero per confluire in altri schieramenti. Nulla di più fantasioso. I candidati dell’Italia dei Valori non sono né più e né meno i candidati che presentano tutti alla faccia dei codici etici compreso. Con evidenti contraddizioni tra quanto sostiene il capo che attingerebbe dalla società civile e non è vero, e quanto il suo capogruppo alla camera va proponendo di sceglierli dopo due anni di militanza in nome di quella nomenclatura veterocomunista insulsa e militare. Il problema è la guida del partito che è nelle mani del Presidente al quale nessuno può dire nulla né proporre nulla. Si vada a leggere lo Statuto dell’Italia dei Valori e si comprenderà come la blindatura del leader sia congegnata ad arte, inattaccabile. La polemica di Micromega è superficiale e pretestuosa quindi perché non va al nocciolo della questione e ci meraviglia che Di Pietro non sia ricorso ai magistrati come abitualmente fa. Chi entra a far parte del partito, si trova al cospetto di un mura insormontabile dove il personalismo esasperato del capo lo rende scostante. Indispettisce l’atteggiamento di chi senza peli sulla lingua dice che tutti sono corruttibili e corruttori, solo lui sarebbe esente da questi mali ragion per cui non si fida di nessuno, neanche dei suoi propri fedelissimi. Da un punto di vista psicologico è come chi pur non avendo commesso alcun reato, sente che all’improvviso l’arresteranno. Qui comincia un problema molto serio. Qui cominciano e da qui si amplificano i problemi di relazione con i componenti della squadra. Avessimo avuto più lucidità nel decifrare i comportamenti più cultura politica e personalità, per esempio di uno come Antonio Borghesi, non avremmo aspettato tre lustri per liberarci dalle catene forti di elezioni sortite da preferenze e non da liste bloccate. Antonio Di Pietro con l’idea che ha di sé stesso e di quello che vuole rappresentare, esaspera i rapporti politici e personali all’interno del partito e si muove come quel parroco di campagna che dice fate come vi dico io e andrete in paradiso. E’ ovvio che non è così. Alzando letteralmente un muro tra il dirigente maximo e i componenti della sua squadra, Antonio Di Pietro, ha inoculato il virus del sospetto riducendo a prassi la circospezione e l’annullamento della personalità di ciascuno. Il suo atteggiamento è poco urbano e disconosce le più elementari regole di comunicazione e di relazione che uno come lui posto al vertice non può non saper masticare. In queste condizioni, come si vuole che si resti impassibili se non si è un yesman?
On. Antonio Razzi
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