Dante sfida il nostro tempo coraggiosamente dopo sette secoli

Pierfranco Bruni

 

Perché Dante non raggiunse un compromesso cercando di evitate il suo allontanamento da Firenze? Una domanda che resta, comunque, in evasa monostante le interpretazioni possono proporre più di una lettura. Era, in quel tempo, l’intellettuale che guardava alla politica con attrazione e con attenzione. Conosceva bene il fatto che é possibile governare soltanto se si riesce a raggiungere un compromesso tra parti, pur contrapposte, sul piano politico.

La politica era dentro la città ma anche nel pensiero che pemetteva di raggiungere un fine partendo da un obbiettivo individuato. Tra Guelfi e Ghibellini lo scontro era dovuto non solo ad una questione di allargamento e di occipazione di spazi di poteri, ma anche ad una mancanza di dialettica dovuta a conflitti tra fazioni, famiglie, gruppi di persone e coloro che un tempo erano stati amici. Così la questione tra Bianchi e Neri. Questa fu ancora meno giustificata anche se le contraddizioni sono in nuce all’interno del Papato e all’interno dell’Impero.

Lo scontro era connaturato nei due mondi che per esistere e resistere avevano bisogno di non separarsi. Qui é il grande dilemma. Dante non volle accettare ma non ebbe percezione che contrapponendosi ai poteri costituiti non avrebbe innescato una dialettica con le famiglie di Firenze? Anzi, in realtà, ha accentuato l’inconprensione? Non era un politico puro. Il suo essere poeta e “intellighenzia” non poneva la sua figura al di là della questione strettamente politica.

Il Medioevo fu un tempo terribile. Fu quel contesto ad aprire ai processi inquisitori proprio per il fatto che Papato e Impero si erano fortemente compromessi. Certo, Dante comprende ciò. Dante comprese ciò?  Ma non agisce da filosofo. Mantiene una posizione politica. Ciò lo conduce ad una rivalità chiaramente politica con i poteri costituiti. Era un uomo della “cosa pubblica” che agiva oltre la visione del padre nobile della Firenze divisa tra fazioni. L’errore, se tale può essere definito, é stato quello di essersi schierato, certamente con coraggio, senza valutare con chi si poneva in contraddizioni.

Il Papato non poteva accettare che un cattolico potesse contrapporsi al Papa. Più che dal laico potere imperiale il suo allontanamento dalla città é stato voluto dal Vaticano.

Non si governa senza compromessi. Dante lo sapeva bene. Non volle compromettersi. Da questo punto di vista lancerà la sfida nelle epoche successive a Giordano Bruno, a Campanella, a Giovanna D’Arco. Comunque non volle comprendere che la politica era oltre il pensiero filosofico, oltre la cultura, oltre la cronaca stessa. Non volle capire o volle sfidare? O forse non credeva che sarebbero arrivati sino al punto di spedirlo in esilio con delle clause orribili. Nel suo peregrinare, dopo aver lasciato Firenze, si portava addosso una minaccia di morte se non avesse rispettato i termini della condanna, ovvero quelli che lo obbligavano eternamente all’esilio.

D’altronde la “Commedia” é un viaggio terrificante che va alla ricerca della Grazia.  La metafora é potente. Il suo riveder le stelle non è affatto vero una allegoria che permette di ritornare alla luce.  É il poema della condanna degli uomini nonostante si possa considerare il viaggio alla ricerca del Cristo che risorge. È un percorso non affatto teologico, anche se è impregnato di elementi teologici. É un viaggio tragico in discesa, in pianura diventa commedia, in salita diventa stellare. Si scende e si sale. Un uomo che tocca una visione metafisica al centro di una temperie post Crociate come fa a non comprendere il fatto che la politica è religione e la religione si applica con la politica? Il dilemma resta.

Senza l’esilio avrebbe capito, comunque, il valore di appartenenza e di amarezza? Temi che sfuggono a qualsiasi modernità. Sfuggono alla contemporaneità.  Sfuggono all’attualità. Dante non si comprimise.  Venne cacciato dalla sua città e proprio in tempo di esilio sfidò ancora di più i Poteri scrivendo il “De Monarchia”. Opera fondamentalmente incisiva che lo staccò maggiormente dal Papato e dall’Impero. Dante di ciò era ben consapevole.

Fu chiaramente un uomo di rottura perché troppo libero per accettare il conformismo. Lo fu sin dalla “Vita nova” nel momento in cui cambiò gli stili del linguaggio. Infatti la sua “rivoluzione” nasce quando abbandona la lingua prettamente medievale innovandola con la Provenza. Dante non é medievale. È altro. Il pensiero é l’annuncio di un Rinascimento che sarà. La lingua è addirittura ciò di cui il Novecento avrà più bisogno. La politica é il fallimento della linearità nel cui interno non basta la prassi ma occorre sancire, a priori, la necessità del compromesso.

Il poeta non accetta ciò. Il filosofo raccoglie la provocazione e sfida con il pensiero. Sfida con le idee.  Ma la politica è azione. É l’agire che permette di governare. Machiavelli capirà tutto ciò partendo infatti da Dante.

Cosa resta di Dante? La lezione di un invito: quello di non accettare alcun compromesso. Una vana lezione, ma che ha creato i veri spiriti liberi, uomini singoli e non altro. Uomini che hanno tracciato non la storia ma i destini di civiltà. Continuare a proporre la “Commedia” come l’esaltazione della Luce si corre il rischio di non capire il motivo della trascendenza che nasce nel tragico. È dal e nel tragico che Dante lega la verità alla salvezza. Una metafisica che la religione non può comprendere se non valuta l’epistemologia antropologica del “divino” che é tale soltanto se atreaversa la tragedia. Una visione greca che Dante ha fatto sua per giungere, dopo la Croce, alla Rivelazione. Ed è qui che la sua sfida si compie tutta.

 

 

 

Inviato da smartphone Samsung Galaxy.Perché Dante non raggiunse un compromesso cercando di evitate il suo allontanamento da Firenze? Una domanda che resta, comunque, in evasa monostante le interpretazioni possono proporre più di una lettura. Era, in quel tempo, l’intellettuale che guardava alla politica con attrazione e con attenzione. Conosceva bene il fatto che é possibile governare soltanto se si riesce a raggiungere un compromesso tra parti, pur contrapposte, sul piano politico.

La politica era dentro la città ma anche nel pensiero che pemetteva di raggiungere un fine partendo da un obbiettivo individuato. Tra Guelfi e Ghibellini lo scontro era dovuto non solo ad una questione di allargamento e di occipazione di spazi di poteri, ma anche ad una mancanza di dialettica dovuta a conflitti tra fazioni, famiglie, gruppi di persone e coloro che un tempo erano stati amici. Così la questione tra Bianchi e Neri. Questa fu ancora meno giustificata anche se le contraddizioni sono in nuce all’interno del Papato e all’interno dell’Impero.

Lo scontro era connaturato nei due mondi che per esistere e resistere avevano bisogno di non separarsi. Qui é il grande dilemma. Dante non volle accettare ma non ebbe percezione che contrapponendosi ai poteri costituiti non avrebbe innescato una dialettica con le famiglie di Firenze? Anzi, in realtà, ha accentuato l’inconprensione? Non era un politico puro. Il suo essere poeta e “intellighenzia” non poneva la sua figura al di là della questione strettamente politica.

Il Medioevo fu un tempo terribile. Fu quel contesto ad aprire ai processi inquisitori proprio per il fatto che Papato e Impero si erano fortemente compromessi. Certo, Dante comprende ciò. Dante comprese ciò?  Ma non agisce da filosofo. Mantiene una posizione politica. Ciò lo conduce ad una rivalità chiaramente politica con i poteri costituiti. Era un uomo della “cosa pubblica” che agiva oltre la visione del padre nobile della Firenze divisa tra fazioni. L’errore, se tale può essere definito, é stato quello di essersi schierato, certamente con coraggio, senza valutare con chi si poneva in contraddizioni.

Il Papato non poteva accettare che un cattolico potesse contrapporsi al Papa. Più che dal laico potere imperiale il suo allontanamento dalla città é stato voluto dal Vaticano.

Non si governa senza compromessi. Dante lo sapeva bene. Non volle compromettersi. Da questo punto di vista lancerà la sfida nelle epoche successive a Giordano Bruno, a Campanella, a Giovanna D’Arco. Comunque non volle comprendere che la politica era oltre il pensiero filosofico, oltre la cultura, oltre la cronaca stessa. Non volle capire o volle sfidare? O forse non credeva che sarebbero arrivati sino al punto di spedirlo in esilio con delle clause orribili. Nel suo peregrinare, dopo aver lasciato Firenze, si portava addosso una minaccia di morte se non avesse rispettato i termini della condanna, ovvero quelli che lo obbligavano eternamente all’esilio.

D’altronde la “Commedia” é un viaggio terrificante che va alla ricerca della Grazia.  La metafora é potente. Il suo riveder le stelle non è affatto vero una allegoria che permette di ritornare alla luce.  É il poema della condanna degli uomini nonostante si possa considerare il viaggio alla ricerca del Cristo che risorge. È un percorso non affatto teologico, anche se è impregnato di elementi teologici. É un viaggio tragico in discesa, in pianura diventa commedia, in salita diventa stellare. Si scende e si sale. Un uomo che tocca una visione metafisica al centro di una temperie post Crociate come fa a non comprendere il fatto che la politica è religione e la religione si applica con la politica? Il dilemma resta.

Senza l’esilio avrebbe capito, comunque, il valore di appartenenza e di amarezza? Temi che sfuggono a qualsiasi modernità. Sfuggono alla contemporaneità.  Sfuggono all’attualità. Dante non si comprimise.  Venne cacciato dalla sua città e proprio in tempo di esilio sfidò ancora di più i Poteri scrivendo il “De Monarchia”. Opera fondamentalmente incisiva che lo staccò maggiormente dal Papato e dall’Impero. Dante di ciò era ben consapevole.

Fu chiaramente un uomo di rottura perché troppo libero per accettare il conformismo. Lo fu sin dalla “Vita nova” nel momento in cui cambiò gli stili del linguaggio. Infatti la sua “rivoluzione” nasce quando abbandona la lingua prettamente medievale innovandola con la Provenza. Dante non é medievale. È altro. Il pensiero é l’annuncio di un Rinascimento che sarà. La lingua è addirittura ciò di cui il Novecento avrà più bisogno. La politica é il fallimento della linearità nel cui interno non basta la prassi ma occorre sancire, a priori, la necessità del compromesso.

Il poeta non accetta ciò. Il filosofo raccoglie la provocazione e sfida con il pensiero. Sfida con le idee.  Ma la politica è azione. É l’agire che permette di governare. Machiavelli capirà tutto ciò partendo infatti da Dante.

Cosa resta di Dante? La lezione di un invito: quello di non accettare alcun compromesso. Una vana lezione, ma che ha creato i veri spiriti liberi, uomini singoli e non altro. Uomini che hanno tracciato non la storia ma i destini di civiltà. Continuare a proporre la “Commedia” come l’esaltazione della Luce si corre il rischio di non capire il motivo della trascendenza che nasce nel tragico. È dal e nel tragico che Dante lega la verità alla salvezza. Una metafisica che la religione non può comprendere se non valuta l’epistemologia antropologica del “divino” che é tale soltanto se atreaversa la tragedia. Una visione greca che Dante ha fatto sua per giungere, dopo la Croce, alla Rivelazione. Ed è qui che la sua sfida si compie tutta. Un Dante coraggioso che oggi sfida il nostro tempo conoscendo il bene e il male e andando oltre.

 

 

 

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