AFGHANISTAN,  LA CAPORETTO AMERICANA E IL  TRAMONTO DELLA NATO

AFGHANISTAN,  LA CAPORETTO AMERICANA E IL  TRAMONTO DELLA NATO

di Vincenzo Olita*

L’8 giugno scorso a un C130 dell’aeronautica, zeppo di giornalisti e autorità militari, diretto in Afghanistan per l’ammaina bandiera del nostro contingente ad Herat, viene negata una sosta tecnica negli Emirati Arabi Uniti. Il governo di Abu Dhabi risponde così all’embargo alla vendita di armi, favorita dal nostro Metternich da Pomigliano, Luigi Di Maio, misura adottata a contratti commerciali già conclusi.

Un vero ceffone diplomatico al nostro prestigio internazionale che anticipa solo di pochi giorni lo smacco alla ventennale missione NATO, del resto già evidente nei negoziati di Doha tra americani, talebani e governo di Kabul avviati con la presidenza Trump nel settembre 2020. Tra giugno e luglio abbiamo assistito al festival di dichiarazioni tronfie e inconcludenti: Stoltenberg – segretario generale NATO – “Continueremo a sostenere gli afghani anche fuori dai loro confini, le loro Forze Armate sono abbastanza forti da poter resistere senza la presenza delle truppe internazionali”. L’inconsistente visione strategica espressa in questi anni dal norvegese può essere funzionale, il prossimo anno, ad un suo aspirante successore come sembra volersi porre Matteo Renzi, entrambi eccellenti divulgatori di storie. Di Maio “Il ritiro delle nostre truppe, una decisione epocale”. Eccellente capacità di ricondurre tutto alla grandeur, del resto la Storia ricorderà già la sua fine della povertà.

Nel frattempo, già in maggio, decine di avamposti delle forze armate si arrendevano alle truppe talebane che dall’inizio di agosto hanno occupato il 70% del territorio e 18 provincie su 34. Il 30 giugno, dopo aver trasferito tutte le responsabilità alle Forze Armate di Difesa e Sicurezza afghane, la retrovia del contingente italiano ha lasciato definitivamente il Paese. Amaro il bilancio della missione, 53 militari deceduti, 723 feriti, numerosi con permanenti patologie, per un costo complessivo di 10 miliardi di euro. Nel conteggio sono contemplati anche 120 milioni annui devoluti dal 2015 alle forze armate afghane che man mano si arrendono senza combattere o passano nelle fila talebane. In conclusione, abbiamo contribuito a finanziare e addestrare un esercito non esercito, immaginato tale solo da sprovveduti addestratori.

Fino a due settimane addietro gli americani e gli alleati NATO ci presentavano la situazione come il risultato degli accordi per il ritiro, oggi si tratta di una resa incondizionata che evidenzia il fallimento di una missione voluta e progettata da George Bush in linea con la migliore tradizione fallimentare della politica estera americana dal secondo dopoguerra. Ancora la scorsa settimana il governo americano annunciava l’arrivo a Doha in Qatar dell’ambasciatore Zalmay Khalilzad per negoziare un accordo capace di frenare l’offensiva militare, nel frattempo una nota talebana chiariva che una resa totale del governo di Kabul avrebbe certamente assicurato il risparmio di vite umane e persecuzioni dei governativi. Siamo al dileggio. Siamo alla commiserazione, invece, per Martin Griffiths, sottosegretario generale ONU per gli affari umanitari, che in questi giorni ha dichiarato che “si può arrivare a un futuro sicuro e sostenibile solo attraverso negoziati di pace di successo”.

Delle fallimentari strategie che hanno guidato la politica estera americana, è superfluo approfondire le similitudini con la ritirata dal Vietnam e i fallimenti nel continente africano, sono più esplicativi i successi dell’invasione dell’isola di Grenada nel 1983 e i 15 mesi nel 1948/49 del ponte aereo per superare l’isolamento sovietico di Berlino Ovest. Nell’avventura asiatica l’America ha coinvolto malamente gli alleati NATO in una missione dai contenuti confusi e dai contorni indistinti, accorti e prudenti solo i francesi che si ritirarono da Kabul nel 2011. Dall’inizio alla resa, offuscati dall’ovvia martellante retorica sul fondamentale ruolo del nostro contingente, presentato sempre e comunque di pace, non ci siamo posti i perché di quella spedizione, non ci siamo interrogati sull’obiettivo finale, non ci siamo mai chiesti quale Afghanistan avremmo lasciato. Oggi lo sappiamo, lasciamo uno stato islamico teocratico che, forse in alcune provincie, potrebbe avere problemi di coesistenza con i Signori della guerra che conservano influenze tribali, in tutti i casi lasciamo un Paese punto di riferimento internazionale del mondo islamico sunnita, ancor più galvanizzato dalla sconfitta degli americani e dei suoi alleati dopo quelle dell’impero britannico e della Russia.

Kabul cadrà entro pochi giorni e la fuga degli occidentali sarà caotica, mette in luce l’estrema debolezza dell’Amministrazione Biden, un presidente orecchiante di una politica estera significativa in tempi di guerra fredda ma oggi irripetibile.

Certo, i negoziati con gli studenti delle scuole coraniche furono avviati da Trump che, almeno, aveva chiaro anche il superamento della NATO e per il futuro una diversa strategia degli USA. Certo, la nostra informazione non lo evidenzierà adeguatamente ma l’immagine di un certo Occidente ne esce compromessa, non si perdono 2400 uomini, migliaia di feriti, 1000 miliardi di dollari per lasciare il nemico più consistente di prima.

Una declinante America dovrà riflettere e molto sul prossimo futuro, la pressione cinese su Taiwan è sempre più consistente ed entro qualche anno saremo ad un bivio in uno scenario internazionale preoccupante. A breve, la Cina capitalizzerà la sconfitta occidentale con un sostanziale accordo di buon vicinato in grado di stabilizzare l’area in funzione filocinese.

Noi da tempo indichiamo l’effettiva inesistenza della NATO e la crisi sempre più evidente dell’ONU assente anche in quest’occasione.

E che dire dell’Unione europea? Nulla! Se non riportare una dichiarazione, di poche ore fa, di Josep Borrel, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, “Se il potere viene preso con la forza e viene ristabilito un emirato islamico, i talebani dovranno affrontare il non riconoscimento e la mancanza di sostegno internazionale.” Anche l’inutile stupidità dovrebbe avere un limite e forse è bene ricrederci, ha ragione il Metternich da Pomigliano “Il ritiro delle nostre truppe, una decisione epocale”.

 

* Presidente Società Libera

 

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