Gli effetti delle recenti grandi proteste in Iran continuano a terrorizzare il regime dei mullah

 

Da anni i funzionari del regime iraniano si mettono in guardia l’un l’altro sul potenziale per una nuova rivoluzione nel Paese. Potrebbero non esprimerlo in questi termini, ma la loro ansia per un movimento di resistenza in espansione è chiara almeno dal gennaio 2018, quando l’Iran è stato scosso dalla più significativa rivolta anti-regime dopo il 2009.

In effetti, la rivolta del 2018 è stata probabilmente ancora più significativa. Mentre la vastità delle manifestazioni del 2009 nella capitale Teheran era praticamente senza precedenti, lo stesso si può dire dell’ampiezza della rivolta del 2018. Si è estesa a circa 150 città e paesi, compresi alcuni i cui poveri residenti rurali erano presentati dal regime come propria base di sostegno

Inoltre, mentre la rivolta del 2009 è iniziata dopo le elezioni presidenziali truffa ed era dovuta alla crisi al vertice del regime, la rivolta del 2018 è stata caratterizzata da un tono anti-regime di portata molto più ampia. È stata definita da slogan come “Morte al dittatore” e “Riformisti, intransigenti: il gioco è finito”. Ciò ha lasciato pochi dubbi sul disprezzo popolare per entrambe le fazioni della politica iraniana al potere, o sull’aspirazione del popolo per il cambio di regime.

La gente chiedeva risposte da un regime che aveva rifiutato a lungo di affrontare le rimostranze popolari dal 1979. E mentre la rivolta era al culmine nel gennaio 2018, la ‘Guida Suprema’ Ali Khamenei presentò una spiegazione che coinvolgeva l’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (OMPI-MEK).

Il MEK iniziò a opporsi al regime teocratico fin dal 1979, e Teheran ha tentato di distruggerlo con molteplici mezzi, incluso il massacro di 30.000 prigionieri politici nell’estate del 1988. Parallelamente al massacro di membri e sostenitori del MEK, il regime avviò una campagna per la sua demonizzazione e prese ad insinuare che era stato quasi distrutto, lasciando solo qualcosa di marginale che non avrebbe rappresentato una vera minaccia per il potere dei mullah. Quella propaganda è durata per decenni, fino a quando, nel gennaio 2018, Khamenei ha riconosciuto che il MEK aveva svolto un ruolo importante nella pianificazione e organizzazione di dozzine di proteste simultanee.

Questo sarebbe stato confermato due anni dopo in un rapporto di uno dei gruppi di studio del regime a proposito della pandemia di coronavirus iraniana e della minaccia di ulteriori disordini popolari. Il rapporto osserva che la fiducia del pubblico nei media statali è scesa ai livelli più bassi mentre sempre più iraniani si affidano ai social media e a strumenti per aggirare la censura online del regime, in modo da poter accedere a sempre più informazioni da fonti indipendenti e straniere.

Questo processo ha contribuito a ottenere che il discorso di Khamenei nel 2018 abbia avuto essenzialmente l’effetto opposto del desiderato. Invece di respingere la rivolta a causa della sua associazione con il MEK, molte persone hanno considerato la rapida diffusione e l’organizzazione di alto livello della rivolta come un segno che il MEK è ben posizionato per presentare una seria sfida alla dittatura teocratica.

Da allora, sempre più persone si sono radunate al fianco del MEK, provocando da parte di funzionari iraniani un’ondata di avvertimenti che non si vedevano da prima del massacro del 1988. Questo era certamente l’opposto di ciò che Khamenei intendeva, ed è stato del tutto impossibile invertire la rotta. Ora è abbondantemente chiaro che i disordini persistenti nella società iraniana sono un segno di conflitto tra il regime e la Resistenza organizzata.

La rivolta del gennaio 2018 è stata solo l’inizio di un movimento che ha resistito molto più duramente della rivolta del 2009, dando origine a quattro rivolte successive, inclusa una nel novembre 2019 che ha coinvolto l’impressionante numero di 200 città e paesi.

Quella protesta a livello nazionale, ora la più significativa nella recente storia iraniana, sta per celebrare il suo primo anniversario. E mentre l’occasione sarà anche una commemorazione dei 1.500 manifestanti pacifici uccisi durante i disordini, ci si può anche aspettare che ispiri fiducia tra i dissidenti del regime iraniano. Le uccisioni dello scorso novembre potrebbero avere spezzato l’ultima rivolta, ma hanno fatto poco per spegnere i disordini sottostanti o per fermare gli avvertimenti dei funzionari iraniani sul potenziale per una nuova rivoluzione.

Quelle uccisioni sono state, soprattutto, un atto di disperazione da parte di un regime che era stato riconoscibilmente vulnerabile per quasi due mesi prima di quel momento. La vulnerabilità persiste oggi, poiché i legislatori iraniani stanno iniziando a riconoscere la profondità del risentimento del pubblico e l’assenza di un piano dettagliato per reagire ad esso. Il deputato Ahmad Hossein Falahi, ad esempio, ha dichiarato domenica scorsa in una sessione aperta del ‘parlamento’ iraniano: “Tutti i problemi vengono posti sullo Stato e imputati alla Guida Suprema. [Il regime ha] determinato un’atmosfera irrequieta con i problemi che ha creato. La società è in condizioni estremamente povere”.

Falahi ha continuato dicendo che, di fronte a un peggioramento dell’epidemia di coronavirus e a una serie di altri problemi, “Nessuno sta pensando a una soluzione”. Ma, ovviamente, il movimento di resistenza iraniano e i suoi sempre più numerosi sostenitori internazionali pensano tutti a una possibile soluzione. La loro prospettiva è stata enunciata dalla signora Maryam Rajavi, presidente dell’opposizione per un governo iraniano di transizione, in una recente conferenza online con legislatori occidentali ed esperti di politica estera.

“Oggi, il cambio di regime in Iran è indispensabile non solo per la libertà e la democrazia in Iran, ma anche per la salute di ogni individuo in Iran e per la protezione delle case, delle città e dei villaggi contro i disastri naturali” – ha detto.

Il cambio di regime in Iran è a portata di mano. Il discorso di Khamenei del 2018 ha probabilmente dato più credito a questo sentimento rispetto a qualsiasi altra affermazione negli ultimi anni. E il chiaro fallimento del regime dei mullah nel reprimere il dissenso in risposta agli avvertimenti della ‘Guida Suprema’ è un’altra testimonianza della sua fragile situazione.

La comunità internazionale deve ora sostenere il popolo iraniano e il suo desiderio di un cambio di regime. Inoltre, il cambio di regime in Iran gioverebbe agli interessi di sicurezza della maggior parte delle nazioni. E come le proteste hanno chiarito, il popolo iraniano è convinto in modo schiacciante che anche i propri interessi ne trarrebbero vantaggio.

Mahmoud Hakamian

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