Precipuo della satira, presente nella cultura occidentale sin dai primordi della letteratura e dell’arte, è colpire con lo scherno e il ridicolo (fermo restando il diritto di una verità seppure alterata) quanto viene ritenuto dagli altri generalmente da accogliere al di là di un adeguato senso critico.
C’è, nella satira, un esagerare che, oltre a provocare ilarità, può, però, far pervenire anche ad un ragionare meno superficiale nell’affiorare dello spirito critico; pertanto la satira, da sempre accolta anche da coloro che erano del satireggiare vittime, deve, proprio per quella sollecitazione critica, considerarsi altro dalla comicità che si ferma al riso, non lo varca per un approdo alla riflessione.
Ma necessita che individui e comunità, per accogliere lo scherno e il ridicolo che si fa su di essi o su quanto appartiene alla loro cultura in senso lato, siano soggetti liberi, ovviamente non dal carcere fisico che solo materialmente tocca la libertà, di certo liberi da quella forma mentis vincolata da catene che, nella pienezza dell’unica forma di pensiero accolta, a null’altro lasciano spazio, annullando così la possibilità del confronto con cui si può pervenire a quella maturità che porta al rispetto.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, documento adottato dall’Assemblea delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948, all’art. 19 recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione”.
E la Costituzione della Repubblica Italiana che quella Dichiarazione precede (27 dicembre 1947) all’art. 21 prescrive: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Un diritto, questo, presente in tutte le Costituzioni democratiche, non considerato, invece, dal pensiero totalitario, volto all’unicum e quindi oppositore del pluralismo, pertanto quanti quel diritto si arrogano sono subito soggetti a punizione.
La libertà di espressione include il diritto di satira, vale a dire il diritto di suscitare ilarità ridicolizzando personaggi e fatti soprattutto della politica e della religione. Relativamente a quest’ultima, da parte di taluni, discutendo su che cosa significhi ‘essere fedele’, essere cioè un soggetto caratterizzato dalla fede e quindi essere da essa segnato, si è molto dubbiosi. In tal caso sembra infatti che si debba fare un distinguo, dato che si deride l’individuo nel suo essere se si deride ciò che definisce la persona.
Può da ciò cogliersi il difficile equilibrio tra libertà di espressione e rispetto della fede, soprattutto se chiusa ad ogni possibilità di dialogo. A maggior ragione poi se la espressione libera si estrinseca nella creatività fulminea che è la vignetta, se si fa vilipendio di una confessione religiosa, la sola che venga ritenuta degna di rispetto da chi la professa. E’ difficile allora, pericoloso anche voler far comprendere a coloro la cui fede richiede che si dia la morte all’infedele con la decapitazione, vale a dire con lo staccare dal tronco la parte significativa dell’individuo, il valore della libertà di espressione con il riferimento proprio ad una vignetta ritenuta di gravissima offesa.
La comprensione del valore della libertà non può attuarsi con un passaggio semplice, richiede gradualità, l’avviarsi al confronto e al rispetto anche di quanto non fa parte della cultura in cui ci si è formati, e quella comprensione avviene inoltre con grande difficoltà e raramente se si è stati plasmati all’assenza di essa.
Maximum sarebbe far gradualmente pervenire a quel “Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, espressione di Evelyn Beatrice Hall, studiosa di Voltaire (meglio conosciuta con lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre), impropriamente attribuita al filosofo francese. Iter da secoli accidentato, sempre più drammatico, come tanti accadimenti del nuovo secolo dimostrano.
Antonietta Benagiano