L’approccio che il governo ha scelto nella gestione della seconda fase della pandemia è profondamente sbagliato, e farebbe bene a ripensarlo prima che sia troppo tardi. L’errore è duplice. Da un lato, nulla è stato predisposto per tempo per fronteggiare l’ondata di ritorno del Covid, nonostante che fosse chiaro a tutti che questa ci sarebbe stata e fossero più che evidenti le necessità cui si sarebbe dovuto far fronte, per sanità, scuola, trasporti, sostegno dei settori più colpiti, imprese e occupazione. Dall’altro, si è scelta un’impostazione di tipo “catastrofico”, nella comunicazione prima ancora che nelle politiche, che rischia di produrre danni incalcolabili. Eppure, nell’uno come nell’altro caso, non c’è più la scusa – l’alibi – dell’imponderabile come all’inizio di questa maledetta pandemia. Sì, c’è ancora da chiarire come mai, essendo stato proclamato lo stato di emergenza sanitaria a fine gennaio, per tutto febbraio fu fatto poco o nulla. Non è cosa da poco, tuttavia si può concedere che quel virus sconosciuto che era arrivato dalla Cina abbia preso tutti in contropiede, come peraltro è avvenuto in tutto il mondo. Già è più difficile trovare attenuanti al fatto che tra marzo e giugno sia stata fatta la scelta di un lockdown prolungato (come nessun altro paese ha fatto) ed eguale per tutto il territorio nazionale, quando invece la situazione di allora avrebbe richiesto un approccio differenziato per aree geografiche e più attento alle ragioni dell’economia. Ma il numero dei morti era alto, gli ospedali traboccavano di malati e i reparti di terapia intensiva non bastavano. Quelli erano i mesi in cui le nostre eccellenze sanitarie cercavano disperatamente di trovare l’approccio terapeutico giusto e i farmaci appropriati. Dunque, in quella situazione, e nel clima di autentico terrore in cui erano piombati gli italiani, gli errori commessi possono essere compresi e perdonati. Ma ci fermiamo ai primi di giugno. Di lì in poi le cose sono diventate ingiustificabili.
Intanto si è alimentata con dichiarazioni irresponsabili l’idea che l’estate imminente sarebbe stata “risarcitoria” dei sacrifici reclusivi fatti con quel lockdown eccessivo e generalizzato (che almeno in parte ci potevamo evitare). Doppio errore. Da un lato questo è suonato come un “liberi tutti” che poi ha portato all’abbassamento della guardia nella difesa dal virus, con tutto quel che ha significato in termini di diffusione dei contagi. Dall’altro, non si è minimamente tenuto conto che il paese avrebbe avuto bisogno, al contrario, di un’estate di lavoro per recuperare il tempo perduto in primavera durante il blocco delle attività e delle persone. Si è raccontato che così si voleva sostenere il turismo, ma la verità è che la nostra pavida classe politica ha temuto l’impopolarità e ha cercato di recuperare con il “liberi tutti” lo scontento generato dal “fermi tutti”. Insomma, si è passati da un eccesso all’altro, dal lockdown prolungato e indifferenziato al godiamoci le meritate vacanze. A questo si sono sommati due fatti gravissimi: la più totale ignavia circa le cose da fare per prepararsi al meglio all’autunno e l’accumularsi dei decreti attuativi rimasti inevasi che hanno reso inutili e svuotati di significato pratico i provvedimenti anti-Covid varati con grande dispendio di enfasi in primavera.
Sul primo punto basta osservare quanto (non) è stato fatto per la scuola per capire cosa s’intende per cialtroneria amministrativa: tra il lungo blocco delle lezioni in presenza e la sospensione estiva (che andava evitata), il governo e la struttura ministeriale hanno avuto tutto il tempo per programmare il ritorno a scuola in settembre avendo messo mano a tutte le precarietà – logistiche, infrastrutturali, organizzative, didattiche, di dotazione degli strumenti necessari – preesistenti e a quelle emerse con la pandemia. Invece non è successo nulla, salvo quanto ha potuto fare la buona volontà delle singole strutture scolastiche. Si sarebbe dovuto mettere intorno ad un tavolo i dirigenti scolastici e i rappresentati delle società di trasporto pubblico locale per pianificare un sistema di turnazione che rendesse più facile il distanziamento sia sui mezzi pubblici che a scuola e per sopperire alla carenza dei mezzi di trasporto con l’ingaggio della flotta dei pullman turistici privati pressochè inutilizzati a causa della crisi del turismo. Nulla di nulla. Quanto alle leggi rimaste sulla carta o non pienamente realizzate, per tutte basta ricordare la cassa integrazione, che l’Inps deve ancora oggi pagare a moltissimi lavoratori, cosa che in molte circostanze ha costretto gli imprenditori a fare da bancomat sopperendo alle mancate erogazioni pubbliche.
In questo quadro fatto di errori strategici e di una clamorosa frattura tra quanto comunicato mediaticamente e quanto effettivamente realizzato, s’inseriscono le scelte di questi ultimi giorni: dal prolungamento dello stato di emergenza fino all’ormai prossimo coprifuoco serale. Al fondo c’è una tara culturale, figlia di una pandemia – quella cognitiva, altrimenti detta “infodemia” – non meno terribile di quella virologica, che genera la malattia del “rischio zero”, cioè l’illusione che una circostanza che non è propria degli essere umani, e cioè quella di poter esorcizzare la morte, possa essere perseguita, anche a costo di penalizzare l’economia (così si muore di fame) e la democrazia (così si muore di populismo se non di totalitarismo). E c’è un errore di valutazione sull’andamento odierno della pandemia e di approccio ai suoi impatti. Errore di cui una tabellina pubblicata dal Corriere della Sera da meglio il senso di qualunque articolato ragionamento: se si prendono e si mettono a confronto i dati di due giornate tipiche della condizione della fase 1 e di quella 2 della diffusione del virus, il 21 marzo e il 14 ottobre, si vede come a sostanziale parità di contagi (6.557 contro 7.332) rispetto ad una quantità di tamponi 5,8 volte superiore oggi rispetto ad allora, si è passati da un incidenza di positivi del 25% rispetto ai controlli effettuati ad una del 4,8%, ad un numero di morti pari al 5% rispetto a prima (793 contro 43) per un tasso di letalità che è sceso dal 7,8% allo 0,3%. Inoltre i ricoverati con sintomi sono oggi meno di un terzo rispetto a marzo (da 17.708 a 5.470) e l’uso delle terapie intensive è meno di un quinto (da 2.857 a 539). Insomma, questi numeri ci dicono quello che la grande maggioranza degli esperti sostiene: che il Covid ha una carica virale più bassa rispetto a prima e che nel frattempo le cure sono diventate molto più efficaci.
Allora, senza per questo sottovalutare i rischi o, peggio, scadere nel negazionismo stupido e ignorante, perchè ci si ostina a voler fronteggiare la pandemia di oggi con i sistemi di 6-7 mesi fa? Con ciò intendendo sia gli strumenti normativi di natura straordinaria – stato di emergenza e Dpcm – che sono tossici per la democrazia rappresentativa, specie se sono sproporzionati alle necessità, sia le misure restrittive di tutta una serie di libertà, adottate nella presunzione che siano efficaci nel contenimento dei contagi. Naturalmente senza farci mancare, oggi come allora, i clamorosi conflitti tra le scelte nazionali e quelle regionali e locali, con i contenziosi tra stato centrale e amministrazioni decentrate che inevitabilmente ne conseguono. Un federalismo delle politiche di contrasto alla pandemia che ha partorito il presidenzialismo regionale, che si somma al presidenzialismo emergenziale del governo centrale, ovviamente senza che una virgola della Costituzione sia stata formalmente cambiata.
Si potrebbe a lungo discutere se tutto questo derivi dalla pochezza cognitiva della classe politica – lo “stato d’incapacità”, come lo ha definito Sabino Cassese – o da una sua furbizia truffaldina per cui praticare l’emergenza e alimentare una emotività catastrofista, per esempio facendo in modo che si confondano i positivi (quasi tutti asintomatici o paucisintomatici, cioè con sintomatologie lievi) è condizione per sopravvivere pur non governando. Io propendo per un equo concorso di colpa tra queste due cause, ma a ben guardare poco importa. Ciò che conta è evitare un progressivo avvitamento verso una forma di lockdown strisciante, che sarebbe esiziale per il nostro sistema economico e sociale, e invece predisporci, mentalmente e sul piano pratico, ad una convivenza con il Covid, per quanto forzosa e sgradevole. Per farlo occorrono due cose di non poco conto: cambiare il piano narrativo del Coronavirus e delle sue conseguenze, facendolo diventare, come è giusto che sia, una malattia come altre; infondere fiducia nei cittadini dimostrando di essere all’altezza della sfida più grande, quella di trasformare questa emergenza sanitaria in una straordinaria occasione per modernizzare l’Italia e risolvere i mai affrontati problemi strutturali, approfittando delle risorse messe in campo dall’Europa. L’alternativa, in mancanza di questo, è subire una tale accelerazione del declino in cui il paese è da anni immerso da far cambiare in peggio il tenore di vita medio dei cittadini in una misura che risulterà inaccettabile per la maggioranza di loro, con conseguenze che non oso nemmeno immaginare.
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