di Nicola F. Pomponio
Esistono testi che letti con il disinteressato interesse e la simpatetica apertura al mondo, tipici spesso e solo, purtroppo, della gioventù, possono indirizzare le scelte di uomini e donne per tutta la loro esistenza. I libri di Marc Fumaroli, sono di questo genere. Il grande intellettuale, Accademico di Francia, professore al Collège de France, laureato “honoris causa” di molte Università anche italiane, è mancato il 24 Giugno e con lui si spegne la voce ferma, chiara, razionale di uno dei maggiori interpreti della storia e della cultura francese, italiana, europea. I suoi libri, pubblicati quasi tutti da Adelphi, sono sempre uno sfiancante quanto salutare “tour de force” in grado di coinvolgere filosofia ed estetica, retorica e teologia, politica e cultura, il tutto sempre argomentato e descritto con un grande “ésprit de finesse” come nella migliore tradizione transalpina e un procedere logico lucidissimo e scevro di qualsiasi turgido, quanto inopportuno o superficiale, entusiasmo il cui compito è nascondere il proprio vuoto interiore.
Fumaroli è diventato noto con “L’età dell’eloquenza” pubblicato nel 1980. In questo testo sono presenti tutti i temi su cui tornerà più volte e da diverse prospettive: l’importanza della retorica nella cultura dei secoli XVI e XVII, lo scontro tra lo stile fiorito e quello asciutto, la centralità della controriforma nell’elaborazione di una retorica finalizzata alla salvezza delle anime, l’importanza ineludibile della riflessione gesuitica e il contraccolpo “atticista” pascaliano, gallicano e ugonotto e quindi ultimo, ma non per importanza, l’intrecciarsi tra stile retorico e formazione di uno stato nazionale francese. Sono temi complessi e apparentemente “antiquari” ma che invece conservano un’attualità e una valenza centrale nel momento in cui su tali questioni s’innesta, e in Fumaroli la cosa è costante, lo sguardo sul presente.
Polverose e dimenticate logomachie svelano una profonda connessione con la nostra modernità ponendoci davanti il problema dell’educazione e della cultura intesa nel senso etimologico del termine; perché studiare i classici? A cosa “serve” conoscere il “Brutus” di Cicerone? La retorica è un mero orpello che svia lo sguardo da una sostanza afferrabile solo attraverso la chiarezza che dice crudamente i fatti? O, incredibile alle nostre orecchie, si può essere considerati preparati se si conosce solo una lingua antica (il latino) e non almeno due (latino e greco)? Contro la visione caricaturale della retorica come inutile impreziosimento il libro di Fumaroli evoca i sottili, tenui ma precisi e importanti rapporti tra “ars oratoria” e verità. In questo i Gesuiti si sono distinti nell’elaborazione di un linguaggio che, sulla scorta degli ignaziani “Esercizi spirituali” ha consentito alla Controriforma la riconquista e il convincimento di anime smarrite nelle tempeste di quei secoli. L’eloquenza, la retorica (nel senso aristotelico del termine ovvero “facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere”) diventano il contrassegno di due secoli fondamentali nello sviluppo francese tra guerre di religione e accentramento monarchico, tra dispute teologiche e fondazione del metodo scientifico.
Questa vasta ricognizione nella cultura d’oltralpe, l’edizione italiana conta più di 800 pagine, è stato il punto di partenza per un’opera ancor più vasta e intellettualmente feconda che esplora i rapporti tra retorica, pittura e politica nel XVII secolo ove squarci di interpretazione di estremo interesse sull’opera di grandi artisti come Leonardo, Caravaggio, Poussin o Guido Reni sono in collegamento diretto con la loro esistenza, il loro sentire religioso, il loro essere uomini profondamente consci del mistero della vita e della salvezza. Ne “La scuola del silenzio” è tutto un mondo ricchissimo di vitalità con i suoi problemi e le sue devozioni che viene evocato. Il Seicento, forse uno degli ultimi momenti in cui la penisola italiana ha influenzato con la propria cultura l’intera Europa (affascinante è la ricostruzione della Roma di Urbano VIII e lo scontro tra il Papa poeta e l’opera di Giovan Battista Marino), viene ricostruito nella sua inesauribile poliedricità, nel suo stretto rapporto col secolo precedente, nel suo evolversi politico con la lucida decisione francese di una translatio studii da Roma a Parigi (di cui Poussin è un esempio).
“La scuola del silenzio” non è solo una galleria di raffinatissime analisi dei grandi pittori italiani e francesi tra Rinascimento e Barocco e non è neanche soltanto un’opera di acuta interpretazione del declino della centralità romana nell’elaborazione culturale a favore di quella parigina, è senz’altro tutto ciò ma è soprattutto una ricostruzione del ‘500 e del ‘600 nei nessi che questi secoli stabiliscono o, meglio, continuano a stabilire tra arte e retorica vista come “l’arte di far vedere e far comprendere agli altri, che è cosa affatto diversa dall’informare”. Ecco. Nella pittura di questi anni c’è una fortissima tensione spirituale (si pensi a Poussin che si rifiuta di dipingere una salita al Calvario perché dice di non poterne sopportare la sofferenza) e una grande passione didattica in cui le diverse tradizioni interne al cattolicesimo si confrontano e si chiariscono vicendevolmente (si vedano le belle pagine sul rapporto tra Caravaggio e rigorismo agostiniano di contro a Reni e la mistica dei cappuccini).
L’opera di Fumaroli si segnala quindi come un grande atto d’amore verso l’Italia e la sua tradizione artistico-culturale; proprio quell’Italia che invece in partigiane ricostruzioni, a partire da De Sanctis, viene descritta come arretrata, insignificante. Fumaroli non teme di dire apertamente che il Papato romano di quei secoli rappresenta l’ultimo, grandioso bagliore culturale della Penisola; così come è chiaramente consapevole del valore della ricchezza dell’unica potenza regionale in grado di contrapporsi a Roma: Venezia. Ma ancor più significativa è l’analisi di come la Francia, su precise disposizioni di Richelieu e del Re Sole, abbia lentamente eroso questa posizione per poi affermarsi come vera grande potenza non solo politica ma anche culturale. Qui filosofia e teologia, politica ed estetica convergono a disegnare un affresco grandioso e di vastissima erudizione.
C’è ancora un altro Fumaroli che tanto ha influenzato, e ci auguriamo continuerà ad influenzare, il sentire comune. E’ il polemista. Fumaroli ha condotto una battaglia senza tregua contro l’involgarimento. Il suo libro “Lo stato culturale. Una religione moderna” non è solo un testo contro le politiche culturali francesi dagli anni Trenta alla fine del ‘900 (si pensi al potente ministro Jack Lang) è anche, e soprattutto, un’analisi della situazione esistenziale moderna in cui sembrano far capolino i temi adorniani e della Scuola di Francoforte. La cultura ridotta a merce, la volgarità, nemmeno più avvertita come tale, l’allegra quanto sconsiderata equiparazione tra l’ultimo dei rockers e Rimbaud, la devastante connessione sempre più stretta tra mercato e “offerta culturale” sono alcuni dei segni della moderna situazione occidentale: si è sostituita la cultura con il divertimento di massa; si è organizzato il tempo libero in “fruizione di beni culturali” svuotando l’arte e la cultura dei suoi significati più profondi.
La cultura ridotta a religione (con un’accezione ovviamente negativa del termine) implica non solo che lo stato interviene sempre più nel definire cosa è cultura, e qui spesso dimostra un atteggiamento puramente burocratico, ma non si distingue più tra cultura e intrattenimento con in più, ciliegina finale (o iniziale) un presupposto ideologico di tipo nichilistico tipico delle società moderne. Il Fumaroli polemista è interessante quanto l’attento studioso dei meccanismi retorici nel linguaggio e nella pittura e forse non è un caso se il primo nome che viene citato nel suo primo libro, “L’età dell’eloquenza”, è quello di Walter Benjamin; senz’altro Fumaroli ha creduto per tutta la sua vita nella possibilità e nella necessità di una Repubblica delle Lettere in cui le persone potessero confrontarsi e scambiarsi le idee a prescindere dal frastuono della società di massa. Un mito reazionario? Forse, ma forse, e per noi senz’altro, un tentativo, l’ultimo tentativo di resistere agli assalti di quei “barbari della civiltà” di Chateaubriand che sempre più dominano il nostro immaginario e le nostre vite reali. A questo sforzo di resistenza al quotidiano con il suo immenso potere di seduzione e di annichilimento, Fumaroli ha dedicato la sua opera, e di questo non si può che essergli immensamente grati.