LA GIUSTIZIA SENZA QUALITÀ NON È GIUSTIZIA 

di Domenico Bilotti

Il ministro Bonafede ha passato indenne le (leggerissime) forche caudine del vaglio parlamentare. Francamente non sussistevano troppi dubbi. In uno scenario in cui le forze politiche non sanno attrezzarsi al voto, sfiduciare un ministro può diventare il fiocco di neve che a valle diventa a sua volta valanga.

Restano certo profili da indagare con sincerità, per l’opinione pubblica e per il funzionamento della giustizia. Passino gli strafalcioni sulla qualificazione del reato, sugli esami, sui rapporti europei… passi persino la gestione poco oculata dell’apparato di nomine, sin qui di molto rumore e di poca efficacia. Quello che è in gioco è una visione ferma e di garanzia dell’agire giuridico nella realtà di oggi. Se ci si intesta la lotta alla giustizia burocratica, fumosa, deformabile, poi vanno varate le riforme conseguenti, non testi in precario equilibrio di leggibilità tecnica. Se si vuole mettere in alto la lotta alle mafie, se ne conoscano le forme reali d’azione: le ecomafie, la penetrazione nelle procedure elettorali, la capacità di controllo della spesa pubblica e dell’intimidazione privata. Non ci si faccia trascinare nella convinzione stupida che togliere i diritti a un condannato sia un grande indice di ordine pubblico. No, purtroppo non lo è. Anzi, è assai vero di solito il contrario. Se si vuole migliorare la qualità del processo si interloquisca nei tempi, negli spazi e nelle competenze che devono innalzarlo. E, se necessario, si lotti per qualificare con contenuti concreti e strategie d’analisi adeguate la formazione giudiziaria, forense e delle professionalità tutte a vario titolo coinvolte nell’agone processuale. Si indichi insomma che giustizia si vuole, una volta per tutte. Se una giustizia conforme a Costituzione, in dialogo qualificato con gli altri sistemi giudiziari, capace di controllare le liti e di attuare la sicurezza sociale e la qualità ermeneutica; o una giustizia sciatta, che anticipa condanne ingiuste senza nemmeno garantire le vittime, che tratta l’argomentazione (del giudice e dell’avvocato) come una pastoia sporca e prescindibile. Una giustizia insomma che confonde il civile con la litigiosità, l’amministrativo con l’affare di Stato, il penale con la forca. La giustizia senza qualità che non serve e non protegge.

Nelle aule di un dipartimento di Giurisprudenza (e non solo in quelle), ho avuto l’onore di poter parlare ai giovani frequentanti di chi ha lustrato il dicastero della Giustizia: l’alto senso sociale di Gullo, la visione garantista liberalsocialista di Vassalli, la propensione dialogica di Martinazzoli e Moro, legata, si, a una parte politica ma anche fortemente ancorata a un galateo semiscomparso della pubblica funzione. Sfiducia o non sfiducia, di questi esempi in realtà non remoti, nella storia di una repubblica giovane, oggi non c’è traccia. C’è invero molto vecchiume tra i giovanissimi.

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