Una riflessione di Olivier Longué, direttore generale della sede spagnola di Azione contro la Fame

Azione contro la Fame è una organizzazione umanitaria internazionale, leader nella lotta alla fame e alla malnutrizione. Opera in più di 50 Paesi da oltre 40 anni (www.azionecontrolafame.it)

E io… dove mi isolo?

Alla luce di una situazione senza precedenti, a un terzo della popolazione mondiale è stato ordinato, in queste settimane, di “isolarsi”. E di farlo nella propria abitazione, provvisto di acqua, elettricità, di un negozio di alimentari non troppo lontano, di uno stipendio garantito alla fine del mese, quantomeno di qualche risparmio. “Limitare” sé stessi è, però, un lusso inaccessibile per milioni di persone nel mondo. Soprattutto, per quelle che non dispongono nemmeno di un tetto per proteggersi, di una porta da chiudere. A causa del lavoro che svolgo in Africa, Asia e America, conosco molte donne, uomini e bambini che non saranno in grado di isolarsi e di creare la necessaria “distanza” sociale in modo che il virus non prevalga. In questi Paesi, l’economia informale è rappresentata da “microimprese di sopravvivenza”, che spesso sono svolte lungo le strade. A Manila, una città vibrante, migliaia di persone tentano di vendere acqua o bibite agli automobilisti che si fermano, per una manciata di secondi, al semaforo. Quando terminano la loro giornata, vanno a dormire in un sobborgo della città, dove le acque grigie bagnano i loro piedi stanchi e nudi. Due o tre cartoni sono il loro unico mezzo per “isolarsi”. Allo stesso modo, a Bogotà, migliaia di migranti venezuelani continuano a vivere sotto i ponti o in affollati campi all’aperto. La chiusura del confine non impedirà loro di continuare ad arrivare, perché la fame non conosce confini. L’unica differenza è legata agli ingressi illegali, dove non potranno essere attivati, per ovvie ragioni, i controlli della temperatura corporea. In molti Paesi, oltre la metà della popolazione dipende dall’economia informale: sarà praticamente impossibile “chiudere” la città e vietare la vendita di arepas, tamales o sapone. Ad Aarsal, in Libano, le precarie strutture in mattoni costruite da alcuni rifugiati siriani sono state demolite la scorsa estate perché illegali. I rifugiati possono continuare a vivere all’interno di insediamenti informali, con le famiglie di sei, sette o otto membri che, alla fine della giornata, condividono un qualsiasi negozio come se fosse una camera da letto qualsiasi. Non sarà solo difficile isolarsi in queste città città. Nei villaggi di Sélibaby, in Mauritania, come faremo a convincere le donne a smettere di cercare acqua insieme quando, per loro, la possibilità di stare in gruppo è l’unica forma di protezione per percorrere i cinque chilometri che le separa dalla fonte? Come verrà effettuato il raccolto di miglio e orzo se non in gruppo, chiedendo l’aiuto anche ad altri per compensare la mancanza di tecnologia? Questa pandemia è già scoppiata in Africa, Asia o America Latina. L’OMS ha confermato che nessun paese è immune da COVID19. Qui, in Europa, dobbiamo essere pazienti e disciplinati in modo che l’ondata di contagio venga spezzata. La nostra frustrazione e preoccupazione per ciò che accadrà domani è immensa. Ma, nel Sud del mondo, dove non ci sono né luoghi per effettuare l’isolamento, né altre opzioni all’economia informale, l’impotenza che si percepisce cammina insieme al terrore provato di fronte al dramma inesorabile. Tutti gli sforzi saranno pochi per limitare il contagio, per prendersi cura dei malati, per iniziare ad alleviare le conseguenze socioeconomiche della pandemia. Se mai questa crisi ci insegnerà qualcosa, sarà la certezza che il mondo, oggi, è più vulnerabile di prima. L’umanità è la nostra casa e, oggi, ha un tetto fragile e, contro il virus, non ha né una porta né muri. Per questa ragione, aiutare chi ha poco, oggi, non è solo solidarietà. È una forma di sopravvivenza. Se perdiamo questa casa oggi, dove ci isoleremo domani?

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