di Domenico Bilotti
Appaiono ormai chiare l'evoluzione e l'affinazione del fenomeno mafioso nel contesto sociale. Al modello meramente delinquenziale si è da decenni affiancato un agire che ha diretta capacità d'intervento nell'economia privata e in quella pubblica, nella selezione della classe dirigente e nell'agone elettorale, persino (e da tempo) nell'interlocuzione coi pubblici poteri nazionali ed europei (aspetto, quest'ultimo, che molti hanno rinunciato a studiare, regalando ai gruppi del potere mafioso una sontuosa vacca da mungere).
Lo dimostrano inchieste da anni; non le mere prospettazioni d'accusa, ma processi complessi, passati attraverso i diversi gradi di giudizio e conclusi con pronunce che confermavano esattamente quel quadro. Da questo punto di vista, non ha molto di specificamente pedagogico la recente maxi operazione Rinascita Scott, che pure attende un giudizio di merito, un pronunciamento di appello e una valutazione di legittimità. Non esisterebbero mafie e tantomeno reati contro le pubbliche amministrazioni e la personalità dello Stato se non ci fosse un fortissimo radicamento che li nutre, agevola, compie, determina.
Bisogna peraltro avere il coraggio civile e l'onestà mentale di ammettere che esiste un modo dell'agire collettivo che lucra lo spazio pubblico con non minore aggressività della mafia, incorrendo di più in cornici punitive inesistenti e anzi in piena autolegittimazione: un agire favoristico, predatorio, privilegiario, che tratta il bene comune come affare privato. E lo fa con implacabile silenzio o addirittura vendendosi a parole come vero tutore della cosa pubblica, persino con velleità filantropiche. Parafrasiamo, senza nemmeno forzarli troppo, Vincenzo Consolo e Peppino Impastato: c'è il connivente dell'associazione mafiosa che entra nell'associazione antimafia, c'è il chierico che ruba le offerte, c'è l'esperto di tutto che non “capisce niente”.
Sarebbe altresì pericoloso elevare ad universali prassi del genere che invece il consorzio sociale dovrebbe attivamente impegnarsi per buttare fuori dallo spazio pubblico e che in realtà troppe volte subisce, tra timori, ineluttabilità e consuetudini malsane. Ergo, ben vengano quelle inchieste che, se fondate e non malamente recepite come caccia alle streghe in roghi mediatici, inchiodano queste condotte ai loro responsabili effettivi.
D'altra parte, la soppressione della corruzione e la liberazione dalla preponderante parte predatoria della società politica, amministrativa e imprenditoriale devono poggiarsi su una base sostanziale e non meramente formale. Non le garantiscono, in ipotesi, le guerre civili, i processi di piazza, le solo occasionali ondate di sdegno, le preconfezionate patenti di pulizia di chi, più che all'onestà, punta al suo boccone, da spartire o da divorare secondo i capricci, gli stili e i comportamenti personali.
Il cd. giusto processo non è la lungaggine su cui riposa l'impunità dei ladri, ma l'ottemperanza a principi che difendono la comunità tutta. La forza della giustizia è (o deve essere) tale da resistere persino a chi tenta di abusarne: non è una prova di muscoli o una petizione sugli istinti, ma un patrimonio collettivo. O capiamo questo, o non riusciamo a risalire le sabbie mobili in cui la società italiana si è talvolta compiaciutamente sprofondata. E questo passa anche e soprattutto attraverso un modo leale, vissuto, tecnicamente formato, non famelico, di raccontare la giustizia. Non augurandosi la morte della nostra civiltà (abolire i gradi di giudizio, eliminare i tempi per l'accertamento dei reati, rendere le condanne assolute prima ancora dei procedimenti che devono irrogarle), ma cooperando a tenerla viva. Non fidiamoci degli osservatori interessati che fanno finta di non tenerne conto: loro sono i primi a saperlo benissimo.