Scrivevo dieci anni or sono: “Sarebbe giusto mettere il crocifisso sulla bandiera italiana. Io non ce ne metterei uno solo, ma tanti, tantissimi. Anzi, li metterei, i crocifissi, su tutte le bandiere della terra. Sì, perché la crocifissione del Cristo è permanente, nel mondo, ed anche nel nostro Paese. Sulla nostra bandiera potremmo cominciare a mettere, tanto per fare un esempio, l'immagine di Stefano Cucchi, crocifisso da energumeni senza scrupoli. E poi i crocifissi sul lavoro, e i crocifissi nel mare…” (Liberazione 6 dicembre 2009). E nel 2012: “Il povero Stefano aveva sul corpo evidenti segni di percosse che non poteva essersi procurate da solo. E allora chi lo picchiò selvaggiamente se non il diavolo? Il demonio ce l’ha a morte con le persone buone, e quando non riesce a farle diventare cattive, gli assesta botte da orbi. E se il diavolo picchia i santi, perché non dovrebbe picchiare persone arrestate, che magari sono anche buone ma non santissime? Lascia solo un po’ perplessi che il diavolo se la prenda solo con i poveri cristi; difficilmente, infatti, picchia una persona arrestata, vestita elegantemente, giacca e cravatta, e magari con una macchina di lusso”.
Sergio Romano, invece, rispondeva così ad una mia lettera: “Commossi dalla morte di Stefano Cucchi, abbiamo dimenticato che ogni persona è responsabile della propria vita ed è inevitabilmente destinata a raccogliere i frutti delle proprie scelte. Non ne sono sorpreso. La reazione al caso Cucchi è quella che si è progressivamente diffusa ormai da parecchi anni sino a diventare, col passare del tempo, «corretta». La morte della vittima ne cancella le responsabilità; e tanto meglio se la colpa può essere imputata allo Stato e alle sue istituzioni” (Corriere della Sera 14 novembre 2009).
Se l’era cercate, insomma, le percosse mortali. Ma il discorso peggiore, imperdonabile, lo fece Carlo Giovanardi, quando dichiarò pubblicamente: “Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo” (novembre 2009). E non sembra abbia ancora chiesto scusa alla famiglia di Stefano.
Renato Pierri