ARTURO CARLO JEMOLO, GIALLISTA DI UN GALATEO PERDUTO

di Domenico Bilotti (*)

Arturo Carlo Jemolo è stato tra i più grandi giuristi italiani del XX secolo. Precoce negli studi, avido nelle letture, è sin dalla giovane età attratto da tre poli ideali, prima che ideologici, che saranno decisivi anche nel suo vasto contributo scientifico: il liberalismo politico, inteso come struttura concreta del diritto democratico; la ricerca storica ed esegetica sul cristianesimo italiano ed europeo; la battaglia culturale per una modernizzazione civile che non faccia tabula rasa del vecchio, ma che esso nutra e sostanzi con la giustizia sociale, che era ignota tanto al liberalismo ottocentesco quanto al latifondo aristocratico di ancien régime.

Egli si definiva “liberal-cattolico”, ma era sufficientemente pronto a non incorrere nelle menzogne del suo tempo. Non aderiva alla storiografia troppo elogiativa sulla figura di Leone XIII e invece seguiva e studiava il magistero di Benedetto XV. Non si esaltava per il massimalismo socialista, ma pure era testimone accorato di sofferenze che, soprattutto nell’Italia del tempo, erano eminentemente e permanentemente di classe: incomprensibili con le lenti del nazionalismo e del conservatorismo elitario e censitario. Non ambiva, poi, alle concettualizzazioni giuridiche e dogmatiche algide quanto autoreferenziali. Ebbe cara la lezione di Francesco Ruffini, cui si attribuisce, con la sbrigatività delle etichette e con la inoppugnabilità della storia, il ruolo di pioniere del diritto ecclesiastico italiano. Probabilmente, Jemolo non credeva fino in fondo all’anticlericalismo di Ruffini e allo studio del diritto evangelico di marca tedesca preferiva la comparazione tra il cattolicesimo confessionista italiano e il separatismo francese – solo all’apparenza irreligioso, ma in realtà imperniato su simbologie e orizzonti di senso che molto hanno a che fare col giurisdizionalismo cristiano. Eppure, l’influenza metodologica di Ruffini e di tutto il liberalismo sociale torinese in Jemolo è forte, avvertita, saldandosi a una venatura ora malinconica e pessimista, ora densamente umanitaria e caritatevole.

A partire da questa corposa elaborazione giuridica, il lettore contemporaneo potrà sentirsi quasi spiazzato a rinvenire nella produzione dell’A. un prezioso racconto giallo breve, molto ben congegnato e sorprendente, quanto, in realtà, lontano dai canoni letterari del genere. Il fantasioso “Scherzo di Ferragosto” (per i tipi di Editori Riuniti, Roma, 1983) ricorda più l’intelligenza di Borges che il noir politicamente schierato degli ultimi trent’anni – le pagine alte di McIlvanney, in parte di Rankin, la critica da sinistra alla socialdemocrazia scandinava che faceva, in buona compagnia, Henning Mankell.

Ciononostante, la testa tagliata che apre il libro, quasi con scherzo surrealista e quasi richiamando le illustrazioni delle teologie morali che Jemolo aveva ben presenti, dà il la a una prova letteraria che è bello ancora oggi leggere e rileggere. Lo stesso fatto viene raccontato attraverso focus diversi: il verbo asciutto del narratore cronista si mescola alla garbata rappresentazione degli umori, delle contraddizioni e, oseremmo dire, dei “pregiudizi”, dei difetti ottici, dei vari personaggi.

La prosa di Jemolo, quando inforca il cimento della letteratura a enigma, diviene l’ospitale caleidoscopio per una grammatica esaustiva dell’arguzia: l’autore sa, probabilmente, ma sceglie di entrare nel gioco, nell’agone. Dà una sua proposta di soluzione all’enigma, non esige di risolverlo dottoralmente. I personaggi sono cesellati con l’efficacia vivida della commedia, la trama presenta una varietà di punti di osservazione che strizza l’occhio alle avanguardie (senza subirne il fascino, ma cogliendone alcune istanze di svecchiamento estetico e culturale), il frasario è godibile e comunicativo perché non si chiude alla morbidezza linguistica della migliore rivista italiana.

Nell’estate alle spalle, il Ferragosto di Jemolo può essere un promettente modo di raccontare un’Italia che oggi non c’è – innanzitutto, un’Italia letteraria: quando la cultura civile aveva un legame, molto più forte e universale di quello odierno, coi saperi umanistici. La sua assenza non è per forza l’inizio del suo funerale: riconoscerla potrebbe, anzi, divenire il motore di una sua riscoperta.

(*) docente di Diritto e Religioni presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro

Lascia un commento

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy