Il penitente di David Mamet

regia di Luca Barbareschi

Uno psichiatra ebreo americano in crisi perché un suo giovane paziente si è reso responsabile di una strage. Convocato dalla difesa, dovrebbe intervenire nel processo -come gli è solito fare in casi analoghi- per introdurre alla Corte il tema della irresponsabilità dell’omicida per vizio mentale. Ma non lo fa: la stampa allora cavalca il tema dell’omofobia, subdolamente insinuando una presa di distanza dello psichiatra dal suo paziente, per essere portatore di quella che lui stesso avrebbe definito un’abiezione. La campagna di stampa diventa ossessiva e travolge in breve la stessa esistenza del maturo psichiatra, che combatte con tutte le sue forze per opporsi a quella perfida gogna che paradossalmente si sta trasformando in un processo contro di lui per via di un’espressione mai in realtà pronunciata e probabile svista di un titolista.

Da qui prende le mosse l’ultima pièce firmata dal grande drammaturgo statunitense David Mamet –Il penitente– l’anteprima andata in scena al Teatro Tor Bella Monaca per la regia di Luca Barbareschi e che debutterà al Teatro Eliseo martedì 7, in replica fino al 26 novembre.

Si tratta di una vera e propria cavalcata di domande che il dramma propone, articolandosi in otto quadri, nei quali il protagonista Luca Barbareschi, nei panni del maturo psichiatra (portatore per tutto il tempo di una kippah, simbolo di un’appartenenza religiosa che vuole diventare scelta di vita) si incontra/scontra con gli altri personaggi: la moglie, interpretata da Lunetta Savino, sconvolta dalla testarda intenzione del marito (cui rimprovera scelte esistenziali elaborate in solitudine, senza valutarne le conseguenze) di non voler deporre al processo, né di risparmiare anche a lei il ludibrio che quella campagna di stampa sta determinando in giro, l’avvocato di famiglia (interpretato dal giovane Massimo Reale) che propone allo psichiatra la pratica via di uscita di accettare le scuse dei giornali, e di intervenire nel processo, senza troppe storie e il pubblico ministero, interpretato da un efficacissimo Duccio Camerini, che si incarica di approntare una serrata schermaglia dialettica nel corso della quale emerge il cuore autentico di questa pièce. La domanda principe che sovrasta tutte le altre imposte dal tessuto narrativo (forse un tantino impervio, in omaggio a una scelta autorale che rinvia sempre la comprensione al finale) è quella che perseguita fin dal principio il malfermo protagonista: può il giuramento di Ippocrate, il dovere della riservatezza imposto ai medici, sovrastare il dovere di collaborare con la Giustizia deponendo contro un paziente? La risposta che il protagonista si dà (confortato anche dalle sue scelte religiose) è decisamente affermativa, a dispetto delle pressioni che gli provengono dalla moglie e dal suo stesso avvocato. Ma è una risposta elaborata che lascia intravedere anche la luce, tutta laica, della rivolta contro uno Stato che pretende di imporre i propri protocolli dietro il ricatto della gogna orchestrata da sicari istituzionali, come i media.

Ma, si è detto, la pièce propone una serie di domande e sarebbe riduttivo limitarle solo a quella appena accennata. Ogni quesito diventa l’occasione per il personaggio di sparare a zero contro l’evidente obiettivo della vicenda: il perbenismo del politicamente corretto e un certo atteggiamento indulgente nei confronti della libertà di stampa, colpevole di autorizzare qualunque scempio pur di placare l’avidità intrusiva della gente. Nella specie, lo scempio si compone intorno alla coppia dei protagonisti, che finisce con l’incenerire la propria unità e le proprie certezze sul rogo della pubblica considerazione.

Al di là di tutto quanto si può dire, di questi tempi di autentica aridità del pensiero, imbattersi in un lavoro teatrale che pone domande e si concede alla fluidità delle interpretazioni anche nelle risposte è una vera fortuna: un plauso a chi riesce ancora a decentrare questi campi riflessivi, portandoli anche nei teatri di cintura.

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