MANOVRA MINIMALISTA, SERVE UN DIBATTITO SERIO E IL CORAGGIO DI UNA SVOLTA PER COSTRUIRE LA RIPRESA

L’ennesima occasione sprecata. La mini manovra di bilancio per rimediare agli errori del precedente governo, realizzata raschiando il barile a destra e a manca, e l’impostazione del nuovo Documento di economia e finanza, che liscia il pelo della congiuntura per il suo verso anziché provare a spettinarla con una politica economica di respiro strategico, rappresentano un passaggio ancora una volta deludente della politica italiana. Che avrebbe come primo ed essenziale compito quello di combattere, arrestare e invertire il corso del declino, e che invece da molto (troppo) tempo ha rinunciato – nei fatti, anzi, per mancanza di fatti – a modernizzare per renderlo capace di tornare a crescere. Niente di nuovo, si dirà. Vero: sono anni che facciamo finta di contestare la politica europea di austerità ma in realtà la subiamo, pietendo un po’ di flessibilità, finendo per non avere né i benefici del risanamento della finanza pubblica né i vantaggi di una crescita sospinta da investimenti a deficit. Peccato, però, che a furia di declinare e rimandare, ora l’onere del necessario cambio di rotta si è fatto tremendamente pesante, e quando l’inerzia presenterà il conto saranno dolori. Non è un caso, infatti, che il Wall Street Journal abbia perfidamente messo il dito nella piaga: il pericolo numero uno per la tenuta dell’euro e dell’Ue si chiama Italia, che pur non crescendo s’accontenta di galleggiare. E persino il prudente direttore del Corriere della Sera – probabilmente riflettendo le preoccupazioni dell’establishment economico e finanziario lombardo, forse finalmente redivivo dopo l’ubriacatura renziana (meglio tardi che mai) – si è premurato di dirci che “la politica gira a vuoto” perché cinque mesi dopo il referendum “la palude è diventata il luogo esistenziale” dei partiti nonostante ci sia la legge elettorale da fare (o almeno da sistemare i due mozziconi restituiti al Parlamento dalle evirazioni emendative della Corte Costituzionale) e una promessa del fronte del No di rimettere comunque mano alle riforme costituzionali.

Ma la cosa più grave è che in questo quadro di sostanziale immobilismo c’è persino spazio per guerre politiche di cui non solo non si ravvisa la necessità, ma che rischiano di spalancare le porte di palazzo Chigi ai populisti. Si è letto, infatti, di una sorda battaglia che Renzi avrebbe ingaggiato nei confronti di Padoan e Calenda, etichettati spregiativamente come “ministri tecnici” – ma quando stavano nel suo esecutivo erano politici? – tesa sia a condizionare le trattative con Bruxelles sulla manovra correttiva ma soprattutto su quella che si dovrà fare in autunno, sia a bloccare le proposte del ministro dello Sviluppo Economico in materia di concorrenza e difesa dei campioni nazionali del nostro sempre più asfittico capitalismo. Peccato che tutto sia rimasto sotto traccia. Mentre se Renzi, peraltro solo in pectore segretario del Pd, intende muovere critiche e indicare alternative su questo o quel provvedimento del governo che è espressione del suo partito e che molti, erroneamente, hanno definito “fotocopia” del precedente, ha sì tutto il diritto di farlo, ma nello stesso tempo anche il dovere di procedere pubblicamente. Anzi, sono talmente tanti anni che al dibattito politico italiano manca il confronto-scontro sulle questioni programmatiche – ridotto com’è a querelle personali, lancio di anatemi e uso smodato di slogan qualunquistici – che chi lo reintroducesse sarebbe benemerito. Affidarsi ai “retroscenisti” dei media, salvo poi lamentarsi del gossip politico quando produce fastidio, significa invece svilire i propri contenuti, o certificarne l’assenza.

Insomma, se nel governo e nella maggioranza esistono idee o addirittura concezioni diverse della politica economica lo si dica apertamente, oppure si mettano a tacere le dicerie e si bagnino le polveri della polemica. Allo stesso tempo, il governo eviti di tirare a campare – è da tempo che lo diciamo, ma non ci arrendiamo alla stanchezza – perché non ce lo possiamo permettere, per l’oggi ma soprattutto per il domani. La manovra minimalista che è stata messa in campo non consente né di accorciare le distanze che ci separano dal resto d’Europa, né di assorbire la doppia crisi dell’ultimo decennio, la recessione del 2008 e seguenti e il crollo di credibilità del 2011. Il ciclo economico ha sì subito un’inversione, ma i progressi realizzati fin qui sono troppo limitati, e la crescita ipotizzata nel triennio 2017-2019 – tre miseri punti complessivi – è talmente fragile da non rappresentare un argine al più che probabile cambiamento in negativo delle condizioni esterne, dalla politica monetaria meno espansiva al gelo neo-protezionista sui commerci mondiali, vera iattura per un paese come l’Italia che ormai ha solo nelle esportazioni il suo vero e unico traino.

Dunque, caro Gentiloni, il cambio di passo e di rotta è indispensabile, tanto più pensando alle dimensioni della manovra – almeno 20 miliardi – che ci aspetta dopo l’estate. Ma soprattutto, è in vista dell’appuntamento con il voto che ci sarà nel 2018 che occorre lavorare. E non certo inventandosi l’ennesimo bonus che, come quelli dell’era Renzi, fa male alla finanza pubblica, non smuove il pil e, per di più, non paga elettoralmente. Lo schema di ragionamento è semplice: se agli italiani si continua a raccontare che le cose vanno non si dice splendidamente (Renzi ha usurato questa “narrazione”) ma almeno benino, essi avranno diritto di chiedere a chi li governa di dar loro cose che non si è in condizione di offrire, e dunque di fronte alle promesse non mantenute o ai guai combinati nel tentare di mantenerle (per esempio le manovre correttive imposte dalla Ue) avranno ulteriormente diritto a mandare a quel paese i governanti ciarlatani. Se, viceversa, si racconta la verità e si chiede la loro solidarietà per rimettere in piedi il Paese, occorre avere la credibilità che giustamente si esige da chi ti chiede dei sacrifici. Altrimenti, nell’uno come nell’altro caso, si spalancano le porte ai professionisti della protesta. Che notoriamente, a qualunque latitudine, se arrivano al governo fanno disastri di dimensioni inenarrabili. Qualcuno, tanto nel campo riformista come in quello moderato, si è reso conto del rischio drammatico che corriamo e ha cominciato a ragionare sui rimedi preventivi.

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