2014: STATI, EUROPE ED EUROPEE

DI ANTONIO DI PASQUALE

L’avanzata delle destre e di un certo nazionalismo è il lampante risultato dell’ultima tornata elettorale europea.
Emerge anche la timida voglia di resistere da parte delle sinistre socialiste alla demolizione dello stato sociale in atto. Esse, tuttavia, non riescono, salvo in Grecia, ad interpretare il disagio sociale dilagante, non solo in tutta Europa.
Lo status quo appare garantito. Le forze che hanno disposto l’austerità rimangono salde, in Italia esse addirittura trionfano.
Si prospetta tuttavia uno scenario per l’integrazione europea, in un contesto di urgenze globali, insidioso, sia sotto il profilo nazionale che internazionale.

Cerchiamo di fare il punto.
L’evoluzione della storia delle istituzioni europee si è mossa, sin dal secondo dopo guerra, grazie a due spinte. Il volere degli stati membri, caratterizzato da fasi alternate di stasi e avanzamento, in ragione dei propri interessi nazionali in relazione alla contingenza generale; il disegno di pace e sicurezza internazionale delle potenze egemoni ed i relativi interessi geopolitici (a cui ovviamente non sono sfuggiti i singoli stati sovrani, in particolar modo quelli sconfitti nel secondo conflitto mondiale, con notevoli implicazioni nell’ambito della guerra fredda e gravi conseguenze alla sua conclusione con il tracollo del blocco sovietico).

L’andamento dell’edificazione di una cosa pubblica europea che ne è risultato è stato definito progressivo.
Ciò significa, stando alle speranze di alcuni, la necessità di assecondare i tempi della costruzione materiale delle condizioni socioeconomiche per la realizzazione, progressiva, appunto, di una tendenziale unione politica tra gli stati sempre più serrata e generale e non più solo economica.
Questo disegno ed il relativo andamento appena rammentato tuttavia esita a maturare, specie se si analizza il relativo processo in termini democratici.
Ma perché?

L’idea di una Europa che possa essere una pacifica casa per tutti i suoi popoli non può non piacere, specie se si calcolano i benefici in termini di economie che ne sortirebbero spendibili in termini di benessere collettivo, senza pensare al potenziale ruolo e prestigio internazionale che ne sortirebbe.
Cerchiamo allora di comprendere il problema analizzando il processo di europeizzazione con una lente democratica.

I trattati della UE, non solo i più recenti dettati dall’emergenza finanziaria, ma anche quelli istitutivi, rimangono infatti viziati da un peccato originario che rende l’Europa incapace di una maturazione politica reale.
Essi sono frutto di una combinazione di liberismo e autocrazia, sono infestati da particolarismo e corporativismo, le istituzioni che ne derivano sono lontane e infettate da una burocrazia tecnica, di alto borgo e privilegiata.
I precetti di ispirazione liberale che agli albori hanno ispirato l’Europa economica, armonizzati con le politiche sociali nazionali fino al 1992, sono stati successivamente con il corso dell’evoluzione delle istituzioni europee distorti.

Da Maastricht in poi, con la moneta unica, fino ai più recenti interventi di crisi e complici gli opportunismi delle maggioranze nazionali di governo, il sistema Europa è degenerato verso un dirigismo accentrato, monetarista e neoliberista, che ha creato una politica monetaria lontana dai bisogni delle genti e abbandonato gli stati ad una politica sociale spuntata poichè non più in grado di essere gestita con una piena autonoma politica economica.

Il Parlamento Europeo, così come strutturato e pensato nei Trattati vigenti, è privo di poteri sovrani e di una reale rappresentanza democratica. Manca un controllo democratico delle decisioni europee come manca una effettiva trasparenza e pubblicità delle medesime, assunte tutte in ambito tecnico burocratico da un manipolo di riservati comitati specialistici.

Il Parlamento Europeo non è l’organo titolare della politica generale europea in cui i rappresentanti del popolo decidono le questioni relative ai propri destini. Ciò perché l’Europa non ha una propria politica generale ma solo una politica economica e monetaria. L’Europa non ha una politica sociale. L’Europa affronta questioni sociali solo se e per creare nuovi mercati a favore della libera concorrenza e in buona sostanza per promuovere le libertà di impresa. Il medesimo atteggiamento è rivolto ai diritti fondamentali degli individui funzionalizzati e considerati anch’essi solo nell’ambito dell’impatto con le politiche economiche e monetarie per la libera impresa.
Non a caso il cittadino per questa Europa è solo un consumatore o un’impresa.
All’ossessiva attenzione per il deficit pubblico, caso strano, corrisponde proprio il deficit democratico ed il deficit di politiche sociali generali.
Da ciò non può che conseguire la struttura del Governo Europeo vigente.

Il Governo Europeo, composto da Commissione e Consiglio, è in buona sostanza in mano alle maggioranze al potere nei singoli stati che possono imporre la politica monetaria compatibile con i Trattati.
Esso è una lontana, complessa, costosa ed articolata macchina burocratica con competenze e procedure ben poco accessibili e controllabili dai cittadini.

Le grandi assenti fino ad oggi dalla progressiva evoluzione europea, sono dunque la democrazia, la politica generale, l’autodeterminazione e la dignità individuale, che solo il lavoro e la partecipazione al potere pubblico da parte dei lavoratori realizzano.

Solo queste assenti consentono di mobilitare le formazioni sociali per affrontare la questione sociale che in tempi di crisi come quelli che viviamo, riemerge nelle sue forme più morbose.

Gli aspetti psicologici e antropologici prodotti dalla perdita del pregresso benessere e dalla frustrazione delle relative aspettative, con una ricaduta negativa nei rapporti di comprensione e collaborazione tra generazioni e tra comunità e apparato, non possono essere più celati.
Il modello culturale individuale e interindividuale prodotto sin qui, che dovrebbe generare le condizioni socioeconomico materiali per una Europa politica tuttavia, oltre le differenze culturali che permangono e caratterizzano i popoli dei singoli stati, risulta inoltre incompatibile e di senso opposto all’impostazione evolutiva progressiva che si pretende di dare all’Europa.

Non esiste più il cittadino lavoratore inserito in una comunità di lavoratori. Esso è stato sostituito dall’imprenditore di se stesso, destinato a consumare e consumarsi in concorrenza con avversari da battere, in un gioco al massacro.
Da tutto ciò deriva uno stato diffuso di malessere e decadenza.

Questa situazione importa notevoli impatti emotivi sui cittadini che rimangono preda di richiami populistici, carismatici e nazionalistici, nonché della ricerca di privilegi e di istinti clientelari: imperversa la lotta per la sopravvivenza, cosa ben diversa da un senso civico o dalla solidarietà sociale.

Quel che risulta dall’esito elettorale è dunque l’assenza di una prospettiva evolutiva.
Fin quando l’Europa continuerà ad abdicarvi in favore di Stati che ha però reso impotenti? Fin quando l’Europa continuerà a provocare i suoi popoli senza offrire loro un percorso per avviare una soluzione?

Questo interrogativo consente di evidenziare quanto le ultime elezioni europee siano intrise di una drammaticità epocale.
La tradizionale opzione evolutiva e progressiva dell’integrazione politica europea sembra infatti si sia mutata, perdurante il deficit democratico delle relative istituzioni, in un rinnovato stato di fatto speciale, caratterizzato da una nuova fase di governo eccezionale della crisi, in cui l’unico limite ad un tale potere assoluto sarebbe rappresentato da giudici lenti, costosi e lontani, arrovellati nel dirimere mille questioni di competenza, giurisdizione, conflitti tra poteri e nell’interpretare normative sempre più cavillose, almeno per quanto concerne l’Italia. La produzione normativa, instabile e ben poco generale ed astratta, eccessivamente articolata, specialistica e tecnica, non rappresenta un efficace baluardo a salvaguardia dei cittadini. Ed essa in Europa è prodotto governativo e giurisprudenziale, come del resto è governativo, in Italia il suo recepimento.

Tutto ciò ha un qualcosa di rivoluzionario, quanto al superamento dell’ordinamento previgente, però si badi bene, in realtà esso è di stampo reazionario e golpista rispetto alle tutele ed alle garanzie sancite nelle costituzioni del secondo dopoguerra ed in particolar modo, per quanto riguarda le libertà e i diritti sociali dei cittadini, sta manifestandosi a pieno quanto al suo potenziale eversivo.
Il terrorismo finanziario monetarista ha mosso le leve per arrivare ad una riqualificazione del modello sociale europeo, compatibile con i canoni neoliberisti, manipolando lo stato di bisogno e disagio dei cittadini, con modalità di ingegneria sociale tutt’altro che democratiche in cui la dignità individuale appare sia stata ben poco sovrana.

La ricetta? Carisma, retorica e propaganda!

Una volta ammonite le genti con la privazione del grasso benessere si è provveduto a serrare le clientele con ambitissimi privilegi, nella sostanza briciole, ma pur sempre piatto ghiotto in tempo di scarsezza.
E così ordinate le masse nel segno della carità e sotto il vigile occhio dell’ennesimo uomo della provvidenza, i popolari e i popolari dello PSE, nonostante tutto, sbancano, specie in Italia, sfoggiano una macchina elettorale impressionante.
Ma di autodeterminazione e solidarietà di lavoratori in crisi di identità se ne è vista ben poca, semmai, nella migliore delle ipotesi, si è osservato nostalgici e confusi genitori preoccupati di garantire i propri pargoli, capitolare da quello che appare il “migliore” dell’ultima tornata.

A questo punto la domanda diviene un’altra.
Questi Popolari e Socialisti della continuità, a giudicare dai loro progetti di riforma, riusciranno a finalizzare il disegno geopolitico da tempo avviato, ed entrato così nella sua fase più “eversiva” o comunque finale?

Le carature potenziali ci sono, il parlamento europeo non conta nulla, ma alcuni governi nazionali risultano rinforzati all’esito della verifica sulle politiche di austerità intraprese: questo è il dramma delle europee 2014.
L’Europa è dunque a un bivio. O finisce impantanata in una questione sociale che non ha strumenti per risolvere, se non la repressione, oppure evolve dotandosi degli strumenti democratici per affrontare una politica economica generale.

In questa Europa la sinistra dove andrà?
Sviluppare riflessioni, organizzarsi e promuovere la cultura in termini critici e originali nella materialità delle dinamiche sociali attuali potrà aprire lo spazio per rivendicare e riconquistare un primato in termini morali e politici, che troppe sclerosi le impediscono di riaffermare?
Il renzismo potrebbe scalare lo scenario?

Come e concedendo quanta autonomia è tutto da verificare.
Di certo l’Europa non evolverà finchè non saranno fatti gli europei.

L’Italia sa bene cosa significhi avviare unificazioni forzose, serventi interessi esogeni e la sua evoluzione democratica è impantanata più che mai tra riforme elettorali ed istituzionali, tralasciando per pietà di patria ogni considerazione sullo stato reale della sua economia e delle relative politiche.
Oggi permane in Europa l’assenza di un comune terreno culturale che leghi gli europei. Rimane dote di poche sette ed accademie che non sarà mai troppo tardi quando capiranno che non è sufficiente menar per il naso le genti facendo leva sui bisogni.
Questo ci dicono le elezioni europee.
La concorrenza, le consorterie, la finanza non possono colmare la lacuna democratica e un percorso condiviso e partecipato dalle responsabilità e dalla consapevolezza di ciascuno.
La necessità di una svolta europea ma anche la difficoltà di tale operazione è testimoniata dalla contestualizzazione del risultato elettorale con i fatti in giro per il mondo.

Cosa significano i fatti ucraini, l’indisturbata mattanza siriana, il precipitare della crisi libica, tutta l’Africa in fermento, Russia e Cina che mettono da parte dollaro e gas stelle e strisce, la Germania che adotta condoni per il rientro dei capitali e sottobanco si accorda con la Grande Russia per spartirsi i vicini come ai vecchi tempi, la Francia che è ridotta ad una macchietta del nazionalsocialismo con un pizzico di napoleonismo decadente, mentre l’ Inghilterra ,al solito, “domina”, con la Spagna che rimane silente e l’Italia tornata in Africa e nei Balcani, tutta intenta nel praticare eutanasia nel mare nostro e nel fare la guardia per conto degli armatori ai contratti atlantici verso est, la Grecia unico faro isolato in cui si registra l’affermazione di una organizzazione dei più deboli.
Tutti nascondo titoli spazzatura e scaricano sulla collettività l’ingordigia del sistema finanziario e bancario ed una classe dirigente incapace di riconvertire il sistema.

Al popolo l’ardua sentenza.

Al socialismo il compito di evitare che l’Europa torni l’ennesimo leviatano fagocitatore di masse inermi e asservite agli interessi di pochi altrove ubicati.
Proprio così, perché il grande assente in tutto ciò è il socialismo!
I Balcani sono terra di confine, come l’Italia, l’Iberia, l’Isola Gaelica. Sapranno farsi promotori dei bisogni dei popoli d’Europa e del mediterraneo lungo le rotte per l’Asia e l’America?
Perché, diciamolo, la realtà è ormai tarata su scale che trascendono gli stati e le unioni, questa globalizzazione ha innescato evoluzioni sociali che stanno man mano perequando le condizioni materiali dei lavoratori del blocco occidentale e di quelli dei BRICS.
Ciò potrebbe pure andare bene, se non fosse perpetrato giocando al massacro, all’insegna dello sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente naturale, a vantaggio della miopia dei signori delocalizzati, ubicati solo nel far soldi ad ogni costo, senza remore e premura per chi al dunque li rende possibili: i lavoratori.

La globalizzazione sta producendo l’uguaglianza dei molti, si potrebbe asserire, la globalizzazione è la vera rivoluzione, è il vero socialismo.
Si, ma al ribasso, al costo della schiavitù dei più per la libertà di pochi, pochissimi. Anche in questo caso una rivoluzione male intesa di stampo reazionario, strisciante, che non libera e non fa progredire ed affossa giorno dopo giorno in una miseria sempre più condivisa.
Questa umanità è sempre più sterile e stressata, stranita dallo stringersi degli spazi vitali, dalla confisca e dall’esproprio delle risorse naturali e dallo stupro dell’ambiente, affogata in viaggi della speranza mal riposta.

Questa umanità è facile preda di interessi che trascendono la sua territorialità e che fagocitano i suoi territori.
Il modello alternativo a tutto ciò stenta ad organizzarsi. Esso è ancora preda della violenza politica, religiosa e nazionalistica, sia del passato, per quanto riguarda la vecchia Europa, sia del presente, per quanto riguarda le aree oggetto di neocolonialismo.
Ciò non aiuta le ragioni del socialismo e i processi democratici reali che potrebbe avviare, ed espone i territori del disagio alle grinfie delle potenze, pubbliche e private, in grado di esercitare un controllo strategico, finanziario e una manipolazione propagandistica a proprio vantaggio di tale disagio.

Che deve fare in un tale quadro chi avverta la necessità di colmare la lacuna di socialismo che le più recenti vicende europee testimoniano?
Ci vogliono atti generosi per superare la pigrizia e lo spaesamento di una società in cui il lavoro è stato rimosso come fonte ed idea di emancipazione.
Iniziativa e ardore con un briciolo di sacrificio occorrono per superare pregiudiziali ideologiche e abbandonare quanto è stato superato dalla storia per produrre materialmente relazioni sociali che consentano la solidarietà tra uomini sfruttati, che rifiutino la sterilità e facciano fruttare la realtà quotidiana del lavoro, non miti e retorica, non propaganda e fantasmi del passato.
Serve una via attuale ed evoluta delle società socialiste, quelle formazioni sociali che seppero conquistare, con enormi sacrifici la priorità della questione sociale nelle agende politiche di tutto il mondo, rivendicando unitariamente gli strumenti democratici: il suffragio universale proporzionale, il libero attivismo, il controllo del Parlamento sul Governo, un’azione politica di economia pubblica rivolta al sociale e non all’interesse del capitale, il tutto sancito in una Costituzione. Felice esito di un processo carissimo che con due guerre mondiali cambiò il mondo. Insegnamento che ben a mente deve essere serbato e che non può essere bandito.
Il resto è un tirare a campare autocratico da cui la sinistra, in senso socialista, si deve sottrarre non potendo tollerare l’Europa nella sua forma attuale.

Il socialismo non si può permettere di rimanere immoto, come i sindacati e i mille rivoli della nostra tradizione a livello nazionale continuano a dimostrare, sottraendosi ad una responsabilità storica, non più rimandabile, lasciando al Renzi ed al Grillo di turno, o ancor peggio alle destre più rozze di tutta Europa, compiti che non possono assolvere.
Occorre quindi ricostruire una socialità politica di base, con una elaborazione culturale per una nuova stagione socialista che muova dai rivolgimenti globali in corso per inquadrare i problemi, che operi nella materialità delle dinamiche sociali per realizzare una concreta azione in profondità, alle origini della struttura delle attuali relazioni umane, in Italia come in Europa, nel Mediterraneo e nel Mondo.
Buon lavoro.

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