ITALIA E SERBIA AL BIVIO DEL DIRITTO (DEMOCRATICO) PROCESSUALE EUROPEO

Gli osservatori internazionali hanno puntualmente certificato un dato che non era sfuggito (seppure non con questa evidenza) a qualunque cittadino europeo che avesse semplicemente cercato di impegnarsi sui temi della giustizia continentale.
Se si adotta, come parametro di una riflessione seria ed effettiva, la condizione delle carceri -nonché di almeno quel ramo del diritto che si chiama “dell’esecuzione penale”, nel girone dei dannati troviamo la Serbia e l’Italia.
È opportuno, certo, operare un minimo distinguo tra le due situazioni, che purtroppo scambiano le posizioni di legalità democratica e riconsegnano, in realtà in modo peggiorativo, la palma dell’inefficacia, dell’inefficienza e dell’ingiustizia al Belpaese.
Tanto per cominciare, la popolazione penitenziaria italiana è ben più numerosa. Non solo, la strumentazione giuridico-parlamentare “nostrana” dovrebbe avere strumenti analitici e, addirittura, risolutivi più consolidati e meglio riferibili a una grande quantità di soggetti sottoposti a privazione della libertà personale, corrispondente a decine di migliaia di individui (con l’aggravante di quelli in attesa di giudizio, sono cifre che equivalgono a una città media di uno degli Stati dell’Europa Orientale).
La legalità costituzionale serba, inoltre, è più recente: oltre alla storia demografica e culturale di quel popolo, infatti, di cui qua non si discute (anzi, va per quanto sommariamente ricordata), il sistema giuridico pubblico dello Stato in questione si forma, in modo ancorché precario, solo allo smembramento dell’ex Jugoslavia, in un percorso accidentato che dura sino a tutto l’ultimo quinquennio, con problemi di conflittualità sociale, di dichiarato accentramento politico nei frangenti di maggiore tensione interna.
Insomma, se si vuole essere onesti, in un ambito di giustizia processuale e penitenziaria, un Paese che aveva, o ha, l’ambizione di mettersi alla stessa stregua dei grandi pionieri liberal-democratici europei, non può sentirsi troppo soddisfatto di essere finito alla pari o quasi di uno Stato di recente formazione e che non registra, nemmeno legislativamente, una peculiare evoluzione sul terreno dei diritti umani. E già questo dovrebbe chiudere i conti con le false consolazioni del “non è detto che siamo i peggiori”.
La via maestra all’Italia, per riportarsi dentro un parametro di legalità comunitaria-internazionale (e, se ciò sembrasse poco, come a volte sembra, per onorare un minimo di giustizia sostanziale), è stata indicata dal Presidente della Repubblica, suggerita strutturalmente dalla stessa Corte di Strasburgo e non scoraggiata, ma addirittura incentivata, da due Pontefici: amnistia e indulto.
Il governo nemmeno ci pensa; interviene sulle carceri con ridottissimi provvedimenti disorganici e che creano difficoltà interpretative, persino nella mera quantificazione e qualificazione dei beneficiari, e si pronuncia, soprattutto nella sua componente a Sinistra (cioè, quella che giurava di farsi carico dell’innovazione, del riformismo, del grande cambiamento, della ripartenza economica e civile), contro ogni ipotesi di clemenza, addirittura bollata come inutile o approssimativa o deficitaria o, peggio, “errore da non ripetere” (e quando recentemente era stato compiuto? Ci torneremo…).
Il vero padre e pioniere dell’europeismo politico, nel quadro del costituzionalismo post-bellico, è Altiero Spinelli. Con Ernesto Rossi, di cui troppo spesso si ricorda solo l’anticlericalismo -ma che anticlericalismo! documentato, intuitivo e non in disprezzo della libertà religiosa, autore del Manifesto di Ventotene. Lo scopo: un’Europa libera e unita. Lo scenario della redazione (prima, ovviamente, della preziosa cucitura sistematica di Colorni): un confino politico. Il sogno europeo nasce, o almeno rinasce, dalle macerie della privazione della libertà politica. Dove c’è un forte regolamento interno che si sfida con la clandestinità. La detenzione e il confino specchio del Paese: ordine e corporativismo, unica alternativa “sediziosa” il cambiamento attraverso discussioni, aperture sovversive con dialogo, impegno e studio, dichiarazioni di opposizione.
La speranza e il progetto di un’Europa federale hanno profondamente bisogno di ripartire dalle sofferenze estreme e distruttive, patite dai suoi fautori: rilanciarsi attraverso la libertà, la decarcerizzazione, la depenalizzazione, la garanzia dell’esercizio dei diritti di libertà. Colorni, Rossi e Spinelli ne fanno manifesto esistenziale: sulla loro pelle e nella loro esperienza, la federazione degli Stati Uniti d’Europa significa massimizzazione dei diritti di libertà, organizzazione efficace antiautoritaria e anticentralistica. Rispetto della legge penale che deve coincidere con la sua natura residuale, scritta, espressa, limitata. Altrimenti, il fallimento interno allo Stato nazionale sarà, in prospettiva, cancro che può contraddittoriamente posizionarsi anche a danno del progetto unitario: se quella violenza cancerogena non viene estirpata coi metodi autentici e nonviolenti dell’armonizzazione e dell’amicizia tra i popoli, può
diffondersi e, contemporaneamente, consumare da dentro quello Stato e quel popolo.
La situazione italiana è a questo disagevole guado e ricordare l’indulto Mastella in nulla aiuta quanti vogliono continuare a tenere, sotto il secchio di fango, il gigante malato dai piedi d’argilla: quell’indulto non fu compiuto proprio per le ragioni opposte a quelle che si ricordano nella “vulgata” di una democrazia “reale”.
Innanzitutto, non fu integrato da un provvedimento di amnistia: non fu elevatissima la percentuale di detenuti che ne beneficiarono concretamente in sede di “output” dagli istituti di pena, processi inconcludenti sul filone della pena principale furono comunque celebrati, la tregua ai numeri infernali e al sovraffollamento fu solo temporanea.
In seconda battuta, vi fu qualche errore nella selezione nella griglia dei reati integranti l’applicabilità oggettiva: i reati bagatellari potevano e dovevano essere al centro di un dichiarato programma di depenalizzazione e, forse, poteva essere più utile evitare che l’indulto fungesse, anche se secondariamente e marginalmente, da salvacondotto per qualche furbetto del reato “bianco”.
Ancora: ma quanto poco si è detto, quanto poco è realmente entrato nella sfera conoscitiva dell’opinione pubblica, sui numeri della recidiva degli indultati, competitivi e, anzi, apertamente inferiori rispetto al trend medio garantito dal nostro sistema penitenziario?
La domanda, a questo punto, è legittima: che c’entra invocare un nuovo indulto, la tanto reclamata amnistia, una riforma complessiva ed economica dei diritti processuali e un quadro di depenalizzazioni, funzionali ad esigenze umanitarie, di spesa e di coerenza giudiziaria interna alla legalità costituzionale, col riferimento ai grandi obiettivi del federalismo europeo, fatto a pezzi dalle opzioni di chi vuole un’Europa di contenimenti di spesa o, all’opposto, un’Europa di Nazioni sul piede di guerra e protezionistiche?
Il riferimento è, innanzitutto, al monito ormai quasi irrecuperabilmente in scadenza giuntoci da Strasburgo; e si rimanda anche ai rapporti sulla detenzione degli Stati “virtuosi”, che dovrebbero suggerirci buone prassi (non solo le aste per le auto blu). E ricordiamo, quasi simbolicamente, la condizione di sofferenza e privazione di quegli intellettuali che, dalle gole infami della prevenzione penale, malamente interpretata dallo stato di polizia, seppero scrivere un’agenda di obiettivi e sogni per un Continente macilento, quasi quanto quello attuale.

Domenico Bilotti

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