Roma non ha mai avuto sete e l’acqua è sempre stata non solo un indispensabile supporto dell’esistenza, ma è stata impiegata per tutte le sue funzioni, ivi comprese quelle ludiche. Parlarne oggi significa aprire una specie di vaso di Pandora, capace di liberare storie, tematiche, elenchi e diversificazioni infinite, lasciando inevitabilmente incompleto il quadro dell’argomento.
Per circa 450 anni il biondo Tevere e le sorgenti limitrofe sono state le uniche fonti di approvvigionamento idrico per i Romani. Poi ben undici acquedotti sono stati realizzati nel corso di cinque secoli a partire dal 312 a.C. quando il censore Appio Claudio fece costruire il primo acquedotto con un percorso quasi tutto sotterraneo, convogliando le sorgenti poste a 10km di distanza dall’Urbe. L’arrivo dei Goti nel 537 d.C. pose fine a quest’abbondanza, tanto da costringere di nuovo all’utilizzo delle acque del Tevere e delle sorgenti limitrofe.
La costruzione degli acquedotti in epoca romana determinò una tale abbondanza di acqua, tanto che nel breve volgere di qualche decennio si poterono contare oltre un migliaio di fontane pubbliche, private e poi piscine, ninfei, specchi per naumachie, terme e tutto quanto fosse destinato alla circolazione dell’acqua. I ninfei erano una sorta di edifici realizzati, rispettando specifiche caratteristiche architettoniche, all’interno dei giardini delle ville private, da utilizzare per feste e riunioni. I ruderi del “Ninfeo di Alessandro Severo” più noto come “Trofei di Mario” (per via di due trofei d’armi barbariche del I secolo), sono l’unica testimonianza di quanto rimane dei ninfei dell’antica Roma, visibili all’interno del giardino di piazza Vittorio Emanuele. Poche, ma significative le vestigia degli antichi acquedotti che convogliavano a Roma le acque da più parti. Undici erano gli acquedotti romani: dal più famoso di tutti, l’Acquedotto Appio, il primo, all”Anio Vetus e a quello Novus, i primi a utilizzare le acque dell’Aniene, all’Acquedotto Marcio, le cui acque provenivano anch’esse dall’alta valle dell’Aniene, non dal fiume, ma da sorgenti limitrofe di ottima qualità e purezza. Ma come dimenticare l’ acquedotto della Tepula che portava dai Colli Albani un’acqua tiepida (16-17 gradi) o l’acquedotto della Vergine che convogliava nell’Urbe una risorsa idrica ritenuta di ottima qualità, l’acqua virgo, priva di residui calcarei. Come dicevamo, Roma aveva bisogno di gettiti idrici per le funzioni più disparate: e così l’acquedotto Alsietino conduceva dal lago di Martignano un’acqua originariamente non potabile, che veniva utilizzata per la “Naumachia del Trastevere” spettacoli di battaglie navali. E poi ancora, a proteggere l’inarrestabile esplosione demografica del periodo tardo imperiale, l’Acquedotto Claudio che trasportava un’acqua seconda solo all’acqua Marcia; l’acquedotto Traiano, convoglio dell’acqua omonima proveniente dal lago di Bracciano costruito appositamente per approvvigionare Trastevere. L’ultimo in ordine di tempo è stato l’ acquedotto Alessandrino. Come già detto, le incursioni dei barbari danneggiarono in maniera definitiva gli acquedotti, riducendo al solo Tevere la risorsa idrica dei Romani e per lungo tempo non vennero costruite fontane nuove.
Ecco quella delle fontane è una storia che vale la pena di raccontare.
I Romani consideravano l’acqua un dono divino, quindi ogni sorgente era dedicata al dio delle fonti (Fons, con tanto di tempio dedicato); inoltre ogni fonte aveva una ninfa di riferimento: Egeria, la più nota, è una delle quattro divinità della fonte delle Camene che la tradizione identifica con la sorgente esistente presso la Porta Capena, vicino Roma. Ma le pratiche cristiane incalzavano: per officiare il Battesimo ogni Chiesa aveva bisogno di un càntaro, un pozzo sacro posto fuori le mura della chiesa a cui attingere acqua per le liturgie (unico esempio rimasto -insieme a quello più grande nel Vaticano – è il pozzo posto avanti la chiesa di San Giovanni a Porta Latina). Nel Rinascimento si preparò un progetto così imponente sulle fontane da costruire, che ora se ne contano oltre 2000. Le “fontes” nascono per soddisfare l’esigenza di raccolta delle acque sorgive, attivando così interventi di incanalamento, drenaggio e parziale immagazzinamento delle acque.
La costruzione terminale degli acquedotti era una particolare fontana denominata “mostra” che indicava o la fine del condotto principale oppure l’inizio delle diramazioni secondarie, oppure indicava il “castello” che conteneva diverse camere di decantazione, compresa la vasca di distribuzione dell’acqua. Delle antiche fontane non restano che reperti archeologici o citazioni che a volte non coincidono con i ruderi ritrovati.
Erano trascorsi oltre tredici secoli dalla realizzazione dell’ultimo acquedotto, quando papa Niccolò V diede il viatico per la riattivazione dell’acquedotto Vergine che diventò operante nel 1570 sotto il papato di Pio V. Il progetto modificò da quel momento la situazione idrica dell’acqua romana, tanto che si cominciarono a contare a migliaia le fontane di diversa forma e foggia. La mostra dell’acqua Vergine è la fontana di Trevi. Posta inizialmente al centro di un trivio -da cui il nome- la fontana del Treio appare con tre bocche che riversano la loro acqua in tre vasche distinte. Dal primo intervento di Leon Battista Alberti che sostituisce le vasche nel 1453 in un unico catino, sono intervenuti più di dieci scultori, fino alla realizzazione ultima, quella che appare oggi ai nostri occhi. Il tema è il mare, la statua simbolo è Oceano che guida la conchiglia-cocchio trainata da due tritoni.
Il cinema non poteva lasciarsi sfuggire la straordinaria location rappresentata dalle fontane romane. Alcune citazioni tra le tante possibili: La dolce vita” di Fellini con l’”Anitona” negli anni’60 che cammina nella fontana, guardata a vista da un languido Marcello Mastroianni. Oppure la scena che vede lo stesso Fellini davanti alla fontana mentre sta girando il suo film, osservato in esterno dal regista Ettore Scola e immortalato poi nel suo film “C’eravamo tanto amati” del 1974. E tanto che ci siamo, nel recente film appena distribuito nelle sale romane “To Rome with Love”, Woody Allen non ha perso certo l’occasione di una ripresa alla celeberrima fontana.
Sono alimentate dall’Acqua Vergine anche le fontane di piazza Navona -la fontana del Nettuno e la fontana del Moro con la centrale fontana dei Fiumi di Gian Lorenzo Bernini -, la fontana nella piazza di fronte al Pantheon, la fontana della Barcaccia situata in piazza di Spagna ai piedi di Trinità dei Monti, realizzata da Gian Lorenzo Bernini e la fontana delle Tartarughe in piazza Mattei nel quartiere ebraico (immortalata in un fotogramma del film del 1999 “Il talento di Mr. Ripley” di Anthony Minghella)
La fontana del Mosè a piazza San Bernardo è la Mostra dell’Acqua Felice (dal nome secolare di Papa Sisto V) realizzata da Giovanni Fontana nel 1587: il Mosè raffigurato è stato considerato –e lo è tutt’ora- un esempio di rara bruttezza e goffaggine da esser definito “mostruosità statuaria”, vittima di pasquinate dell’epoca che lo soprannominarono “il Mosè ridicolo” per l’eternità. Diverse sono le fontane alimentate dall’acquedotto Felice, tra queste le “Quattro fontane” poste nell’'incrocio tra Via delle Quattro Fontane e Via del Quirinale; la fontana di Marforio, una vasca dove è stata collocata una notevole statua romana risalente al I secolo, raffigurante forse il dio Oceano, che è stata una delle sei statue parlanti di Roma e ora fa mostra di sé nel cortile interno del Palazzo Nuovo in piazza del Campidoglio; la fontana del Pianto in piazza delle Cinque Scole che avrebbe dovuto approvvigionare il ghetto ebraico appena costituito nel 1555; la fontana del Tritone opera di Gian Lorenzo Bernini nel 1643.
Papa Paolo V Borghese agli inizi del ‘600 aveva voluto approfittare del restauro dell’antico acquedotto Traiano –ribattezzandolo “dell’ Acqua Paola”- che avrebbe dovuto coprire il fabbisogno idrico del Gianicolo e del rione Trastevere (mentre il vero scopo era quello di poter utilizzare quell’acqua in grande quantità per i giardini vaticani). Quell’acqua però era di così povera sostanza che il sarcasmo popolare prese a dileggiarla, tanto che divenne proverbiale la sua insipienza: di una medicina di scarso valore terapeutico, si disse (e si dice ancora adesso), che cura “come l’acqua Paola”. La Mostra dell’Acqua Paola è il “Fontanone” che si affaccia dal Gianicolo, realizzata nel 1612 da Giovanni Fontana lungo la via Garibaldi.
Verso la metà del XIX secolo papa Pio IX dispose la ricostruzione dell’antico acquedotto dell’Acqua Marcia. La gestione del nuovo acquedotto fu affidata, nel 1868, alla società “Acqua Pia Antica Marcia”. La mostra terminale dell’acquedotto è costituita dalla “fontana delle Naiadi” situata in piazza della Repubblica, inaugurata il 10 settembre 1870 opera dello scultore palermitano Mario Rutelli. I piemontesi appena arrivati a Roma realizzarono a Piazza dei Quiriti, nel quartiere Prati, la fontana delle Cariatidi (immortalata in un indimenticabile episodio del film Paisà di Rossellini) e la fontana di Piazza Mazzini. Anche il XX secolo ha continuato a regalare alla Città Eterna le sue testimonianze artistiche in foggia di fontana: la più famosa di tutte la fontana delle Rane nel Quartiere Coppedè, monumento al Liberty italiano. Ma l’acqua a Roma evoca anche i tanti abbeveratoi sparsi un po’ dappertutto e poi i cari, indimenticabili “nasoni”, colpiti da un po’ di tempo da un’insensata campagna di rimozione. A chiudere, nella pagina degli indimenticabili, dobbiamo ricordare le piscine dei poveri delle periferie romane: le “marane”, consegnate alla memoria di tutti dalle performances sbrasone del bullo Alberto Sordi/Nando Meniconi di “Un Giorno in Pretura”.
Almeno dalla fine degli anni Quaranta l’approvvigionamento idrico a Roma è assicurato dall’acquedotto del Peschiera (che dal 1980 riceve anche il contributo della sorgente del Capore) e convoglia a Roma le acque dell’omonimo affluente del Velino. Con la sua portata di 14 mila litri di acqua al secondo l’acquedotto è uno dei più importanti in Europa. Ultimamente sotto stretta osservazione da parte dell’OMS per la parametrazione delle presenze di arsenico. I quartieri a sud-est di Roma sono serviti dall’acquedotto Appio-Alessandrino (che altro non è che il potenziamento dell’antico acquedotto Felice). Dal 1964 l'Acea ha il controllo di tutta la rete idrica romana.
Non tralasceremo di ricordare che Roma significa anche lo Stato del Vaticano e che i Patti Lateranensi ne regolano la fornitura idrica che è garantita e gratuita. Anche se dal 1999 è stato aperto un contenzioso tra l’Acea e il Vaticano per le spese di manutenzione del loro sistema idrico.