C'è un episodio assai significativo nella vita di Spinelli prigioniero politico, annotato a pag. 258 della sua autobiografia Come ho tentato di diventare saggio, edita da Il Mulino.
Racconta Spinelli che, durante la sua permanenza al confino a Ponza, precisamente durante il 1938, la polizia applicò con una certa metodicità il principio secondo il quale l’avversario non era solo da tener prigioniero, ma da umiliare e spezzare moralmente. Il riferimento contenuto nel passaggio è al saluto romano: ogni confinato, per fornire prova di partecipazione “all’opera rieducativa”, doveva adottare il saluto fascista.
L'esperimento venne eseguito a Tremiti, su confinati ritenuti poco pericolosi rispetto a quelli di Ponza e Ventotene.
A questi confinati venne infatti ritirato il “libretto rosso” personale – dove veniva tra l'altro annotata ogni violazione da loro commessa – che fu restituito a tutti il giorno successivo con una nuova prescrizione: l'obbligo del saluto romano alle autorità.
Ovviamente tutti vennero subito messi alla prova e chiamato l'appello: i confinati risposero ignorando volutamente la prescrizione del saluto. La reazione fu immediata: i confinati dell'isola di Tremiti vennero arrestati, imbarcati e deferiti al pretore di Manfredonia. La condanna sembrava scontata.
Successe invece qualcosa di inspiegabile in uno stato totalitario, possibile solo – commenta Spinelli – per la tipica superficialità italiana. Un “piccolo oscuro pretore” – di cui non sa ritrovare il nome – sfidò la polizia e rifiutò di accogliere le denunce, in quanto, a suo giudizio, “la Polizia sull'isola aveva solo il compito di mantenere la disciplina, non di imporre opinioni politiche”. Va da sé che il pronunciamento doveva valere come significativo precedente, utile a scongiurare iniziative analoghe in ogni altra parte del Regno.
La Polizia non si arrese subito e tenne forzatamente in carcere i prigionieri ancora per molti mesi, rinviando a Tremiti solo gli arrestati che manifestavano cedimenti. Fece anche tentativi a Ponza e Ventotene, ma di fronte alla resistenza passiva “delle braccia che non si sollevavano” (magari perché era pervenuta dai circuiti clandestini la notizia della coraggiosa presa di posizione del Pretore di Manfredonia), non restò che prendere atto della sconfitta, ammettendo che gli antifascisti avevano il diritto di affermare anche esteriormente questa loro scelta, astenendosi dal saluto romano.
A rivedere il contesto storico in cui quell'episodio si colloca, c'è più di una riflessione da fare.
1. Siamo nel 1938, i rapporti tra Mussolini ed Hitler si sono ormai consolidati. La visita in Italia aveva reso enormemente in termini di consenso plebiscitario: in occasione della tappa romana del Führer nel maggio del 1938, Roma si era vestita a festa con striscioni di benvenuto, aquile, simboli littori. I capi-condomini del centro avevano ricevuto incarico di far esporre da quante più finestre possibile bandiere e coperte, regolando il flusso disciplinato dei condomini alle manifestazioni di saluto all’illustre ospite. La visita italiana aveva avuto una enorme ricaduta, essenzialmente sul piano propagandistico. Ora i due regimi si sentivano affratellati; e quale migliore manifestazione di fratellanza la piccola Italia poteva esprimere se non, tra l'altro, quella di mutuare dal grande alleato le modalità di “trattamento” degli oppositori?
2. Ora, la disobbedienza al dovere di “salutare romanamente” – per distrazione, per superficialità, perché si riteneva che il più contenesse il meno – non rientrava, a quanto si può dedurre, nel novero delle condotte sanzionate penalmente dagli articoli della Legge istitutiva del Tribunale Speciale, dal titolo “Provvedimenti per la sicurezza dello Stato”, del 25 novembre del 1926. Neanche il codice Rocco, del resto – per quanto generoso e solerte nel sanzionare nel Titolo primo una vasta gamma di condotte oppositive al Regime – lasciava troppi spazi per ricondurre quel piccolo comportamento omissivo tra le fattispecie penalmente rilevanti: fu probabilmente a questo presupposto che si appellò il “piccolo oscuro pretore” per la mancata convalida dell’iniziativa ostinata della Polizia.
Un piccolo spiraglio rimasto aperto, insomma, nell’apparato del regime totalitario, o aspirante tale, il cui Tribunale Speciale era comunque responsabile dell’invio di tanti oppositori, più o meno colpevoli, nelle patrie galere o al confino.
Il Tribunale Speciale evoca sinistri ricordi per l'Italia: a soli 4 anni dalla presa del potere, il fascismo ne aveva istituito uno, con unica sede a Roma, capace nei suoi 16 anni di funzionamento di esaminare oltre 16 mila fascicoli, irrogando pesanti sanzioni detentive e confini di polizia ad oppositori del regime.
Il Regime, come abbiamo visto, ne doveva avvertire un'esigenza disperata, visto che, appena creata la Repubblica Sociale, una delle prime cose che pensò di ricostituire fu un nuovo Tribunale Speciale, questa volta con sedi diverse a seconda delle vicende belliche: Mantova, Padova, Bergamo. Ebbe varie sezioni tra le quali quella di Torino. Anche gli occupanti nazisti avevano istituito un Tribunale Speciale per la zona d'operazioni nelle Prealpi, con sede a Bolzano.
Al sistema repressivo non bastava dunque una semplice legge che introducesse, per dire, il reato di antifascismo e prevedesse pesanti trattamenti sanzionatori, lasciandone l'applicazione ai Tribunali ordinari del Regno (l’esperienza del piccolo Pretore di Manfredonia sarebbe stata emblematica in questo senso): ci voleva proprio l'istituzione di un Tribunale Speciale, con sede a Roma e componenti di sicuro affidamento, non appartenenti all'ordine giudiziario, bensì semplici ufficiali della milizia fascista, i quali, esibendo la camicia nera, potevano irrogare condanne esemplari e a ciclo continuo.
I “Tribunali Speciali”, come è possibile dedurre per antitesi dagli ordinamenti attualmente in vigore, sono “speciali” – in opposizione ai “Tribunali ordinari penali” – perché:
• derogano al principio del giudice naturale, che, normalmente, per la totalità degli ordinamenti giudiziari, è quello del luogo del commesso delitto (cfr. Costituzione italiana art. 25 e art.102, comma II (divieto di istituire giudici speciali o straordinari)
• si riservano l'esclusiva giurisdizione in quella materia (cfr. Legge istitutiva del TS)
• corrispondono all'obiettivo, da parte di chi li istituisce, di conseguire con sicurezza il massimo controllo della sentenza che si vuol ottenere.
• non prevedono un organo di appello.
Il Regime – dopo la svolta autoritaria successiva al delitto Matteotti del 1924 – aveva bisogno di un pretesto vistoso per istituirne uno.
Gli attentati perpetrati a danno di Benito Mussolini, nel periodo compreso tra novembre 1925 ed ottobre 1926, furono difatti utilizzati strumentalmente per l'istituzione del Tribunale Speciale e per consolidare quindi la giovane dittatura fascista. Se ne può qui riprodurre la serie in modo sintetico, avvalendosi di dati forniti da Wikipedia.
Una serie di attentati a Mussolini
Già in occasione della “Marcia su Roma”, il 28 ottobre 1922, Mussolini rischiò di morire: mentre si trovava a Milano, un euforico squadrista inciampò e fece partire un colpo di fucile che gli sfiorò un orecchio. Dopo essere divenuto capo del governo, Mussolini fu fatto oggetto di una serie di attentati.
Il primo fu ideato il 4 novembre 1925 dal deputato socialista e aderente alla massoneria Tito Zaniboni (sentenza n. 9 del 22.4.1927) ma l'organizzazione segreta dell'OVRA (il reale significato della sigla è ignoto per mancanza di documenti; secondo alcuni storici essa significherebbe “Opera di Vigilanza e di Repressione dell'Antifascismo”) riuscì a sventare tempestivamente la minaccia.
Il 7 aprile 1926 una cittadina irlandese, Violet Gibson (figlia di Edward Gibson, primo Barone di Ashbourne, lord cancelliere d'Irlanda) sparò a Mussolini durante una cerimonia al Campidoglio, ma il proiettile lo colpì di striscio al naso. La Gibson, faticosamente sottratta al linciaggio, fu condotta in questura e interrogata, ma non rivelò la ragione dell'attentato. Si suppose che l'attentatrice fosse pazza, oppure anche che potesse essere stata indotta al gesto da qualche istigatore sconosciuto. La Gibson comunque fu espulsa dall'Italia e rimandata in Irlanda, non scontando pene detentive grazie alla generosità platealmente manifestata dal Duce in persona: il giorno dopo l'attentato, Mussolini intraprese un viaggio in Libia e si mostrò a Tripoli con un vistoso cerotto sul naso.
Nel settembre dello stesso anno, l'anarchico Gino Lucetti (sentenza n. 20 dell’11.6.1927) lanciò una bomba contro l'auto del capo del fascismo: l'ordigno scivolò sul tetto della vettura ed esplose a terra ferendo lievemente soltanto un passante.
Il 31 ottobre 1926, Mussolini subisce a Bologna – dove si era recato per inaugurare lo stadio littorio – un altro attentato che fu attribuito allo studente quindicenne Anteo Zamboni, che sfiorò appena il bersaglio e fu immediatamente pugnalato a morte dai legionari fascisti.
Non sono ancora stati chiariti i motivi del gesto di Zamboni: alcuni sostengono che egli fosse un giovane anarchico (ma appare poco probabile, visto che Anteo era un balilla convinto). Altri invece pensano che con questo gesto egli volesse solamente “passare alla storia”. Secondo una corrente di pensiero, sembra molto più credibile che dietro il gesto di Anteo vi fosse un complotto di potere interno al fascismo, tra l'ala estrema legata a Farinacci ed il nuovo corso normalizzatore voluto da Mussolini, tanto che si è giunti a pensare che il gesto non fosse stato compiuto direttamente da Zamboni, ma da altri che avrebbero poi fatto ricadere la colpa sul giovane.
Certo è che dal fallito attentato chi guadagnò prestigio e ulteriore potere fu proprio Mussolini, che ne approfittò per chiudere sia con l'antifascismo che con le frange estreme all'interno del fascismo, eliminando gli ultimi residui di democrazia. Il 5 novembre 1926 il governo scioglie i partiti politici di opposizione e sopprime la libertà di stampa; il 25 novembre, come ricordato, il Tribunale Speciale veniva istituito.
Mussolini si salvò da altri due attentati solo progettati ma non eseguiti (tra il 1931 ed il 1932) per mancanza di determinazione o per effettive difficoltà organizzative, ad opera rispettivamente degli anarchici Michele Schirru (sentenza n. 33 del 28.5.1931) e Angelo P. Sbardellotto (sentenza n. 51 del 16.6.1932), che furono comunque condannati a morte.
Due condannati illustri del TS: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi
Il giovane Altiero SPINELLI, già dagli ultimi anni di scuola, comincia a interessarsi alla politica, in influenzato dal padre e dalle letture di testi socialisti.
Dopo la fondazione del Partito Comunista sceglie la militanza in questo partito al quale si iscrive nel 1924, compiendo una rapidissima carriera da segretario della cellula di appartenenza a segretario interregionale per l’Italia centrale, costretto poi dagli eventi alla clandestinità.
La Polizia fascista riteneva Spinelli individuo estremamente pericoloso per la sua intelligenza, capacità organizzativa, potere di persuasione e dedizione totale alla causa.
Il 3 giugno 1927 Spinelli, non ancora ventenne, venne arrestato a Milano e tradotto a Roma, dove venne processato dal Tribunale Speciale e condannato a 16 anni e 8 mesi di carcere per cospirazione contro i poteri dello Stato (coimputati nel processo: Vignocchi condannato a 14 anni e Parodi a 21 anni).
Dopo circa un anno, trascorso a Roma nel carcere di Regina Coeli in attesa del processo e del relativo trasferimento, Spinelli viene rinchiuso a Lucca. Durante la detenzione, grazie all'applicazione di alcuni indulti, vede la sua pena ridursi a circa dieci anni di carcere (scontata tra i penitenziari di Roma, Lucca, Viterbo e Civitavecchia). Ma, al momento del rilascio, anziché essere liberato, verrà inviato al confino prima a Ponza (1937-1939) e poi sull’isola di Ventotene (1939-1943).
Matura il distacco dal Partito Comunista a seguito di un lungo ed elaborato percorso personale iniziato durante gli anni del carcere che diventerà definitivo durante gli anni dei processi sanguinari allestiti da Stalin contro i suoi oppositori.
A Ventotene, tra l’inverno del 1941 e la primavera del 1942, prenderà forma il Manifesto per un’Europa libera ed unita (Manifesto di Ventotene), il documento base del Federalismo Europeo, frutto di profondi ed elaborati incontri fra Altiero Spinelli e Ernesto Rossi insieme a Eugenio Colorni ed Ursula Hirschman, ognuno con un ruolo diverso e ben preciso.
Spinelli viene liberato il 19 agosto 1943 e dieci giorni dopo fonda a Milano il Movimento Federalista Europeo, insieme ad un gruppo di simpatizzanti del Federalismo.
Ernesto ROSSI (sentenza n. 34 del 30.5.1931), dirigente insieme a Riccardo Bauer di “Giustizia e Libertà”, pagò la sua militanza con una condanna del Tribunale Speciale a venti anni di carcere, di cui nove effettivamente espiati nelle patrie galere e quattro al confino di Ventotene. Qui, con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni maturò più compiutamente quelle idee federalistiche che nel 1941 avrebbero dovuto ricevere il loro suggello nel celebre “Manifesto di Ventotene” e nella fondazione del MFE.