“Gli anni spezzati-L’ingegnere” è il terzo ed ultimo film-tv (stasera la seconda ed ultima puntata, in prima serata su Rai1) della miniserie che ha raccontato un particolare periodo storico dell’Italia, tra le polemiche di chi ha parlato di revisionismo e l’elogio di chi ha l’ha definita operazione dovuta e coraggiosa.
Questo ultimo film racconta una storia completamente inventata, per provare ad avere maggiore libertà rispetto agli altri due, ma conservandone ambientazione e temi.
Prodotto da Rai Fiction e da Albatross, con la regia (e la partitura) di Graziano Diana, è ambientato nel 1980, quando l’Italia è alle prese con numerose difficoltà economiche che porta la Fiat a ridurre il proprio personale, provocando le ire dei sindacati.
Protagonista è Giorgio Venuti dirigente Fiat che, che, mentre sulle strade i movimenti terroristici sfruttano la rabbia degli operai per colpire le istituzioni, riceve l’incarico di dover licenziare sessantuno dipendenti che potrebbero avere a che fare proprio con i terroristi.
Nel cast Paola Pitagora, Christiane Filangieri, Enzo Decaro e Pier Luigi Misasi, mentre il protagonista è Alessio Boni.
Considero il film e la serie discretamenrte riuscita e nettamentu superiore alla media dei film-tv di questi ultimi tempi, anche se non a livello (per accurateza e coraggio) di “Braccialetti rossi”, serie partita il 26 gennaio, che alla sua prima puntata batte “il segreto2 di Canale 5 distaccandolo di un milione e mezzo di spettatori e ci mostra come la forza dell’amore ci possa far superasre ogni difficoltà offendo uno spaccato realistico della vita in corsia, tra amicizie indissolubili, difficoltà che sembrano insuperabili, litigi e amori che nascono ed imbastendo un inno alla speranza, che riporta i più nostalgici ad “Amico mio”, la serie tv degli anni ’90 interpretata da Massimo Dapporto e dai suoi piccoli pazienti, tra tutti il celebre “Spillo”, imperniata sulle vicende del dottor Magri e dei suoi colleghi del reparto di pediatria dell'ospedale San Carlo di Nancy di Roma, sempre convinti che non ci si debba occupare solo della salute dei suoi piccoli pazienti ma anche delle situazioni familiari e sociali che spesso sono all'origine dei malesseri ed impegnati a lottare ma anche contro le incomprensioni e le lentezze della burocrazia.
In “Braccialetti rossi”i protagonisti sono sei ragazzi, dagli 11 ai 17 anni, che si conoscono all’interno di un ospedale: Leo è il Leader del gruppo, Cris la Ragazza, Davide il Bello, Toni il Furbo e Rocco l’Imprescindibile, un bambino in coma che è anche il narratore della storia. Ognuno porta con sé i propri problemi: c’è chi soffre di cuore, chi di anoressia, chi deve rinunciare a una gamba per sconfiggere il cancro. Insomma storie dolorose che nelle corsie degli ospedali si incontrano tutti i giorni. Questi ragazzi però affrontano la malattia con una sorprendente forza interiore, stimolati dall’amicizia, dai loro sogni e desideri, trasformando quel luogo triste in un castello incantato, in un luogo magico.
Una serie in cui il regist aGiacomo Campiotti non ha avuto paura di parlare del dolore, né dei buoni sentimenti che emergono nei momenti più drammatici in persone ancora capaci di dare il meglio di sé di fronte alla sofferenza e alla morte.
E’ più importante conoscere la persona che non la malattia”, sosteneva Ippocrate già nel V secolo a.C., ma con l’affermazione della medicina basata sulle evidenze (EBM) si è sviluppata la tendenza a considerare la malattia soltanto un insieme di dati, segni clinici e sintomi.
Questa seie ci ricorda che, invece, è importante l’individuo e non il sintomo, la persona e non il dato di laboratorio o strumentale.
Inoltre, a diffrenza di quanto accade attualmente nel cinema e dagli anni 80, la serie tv non ha del medico una visione esclusivamente critica, oltre al mettere al centro la autoderminazione del paziente, secondo la tradizione migliore di film come “L’olio di Lorenzo”, di George Miller, “Son frere”, di Patrice Chereau e “Le invasioni barbariche” di Denys Arcand, con pazienti attivi e partecipi nella gestione stessa della cura.
Sicché dopo la bellissima prima puntata, viemne fatto di chiedersi se la miniserie non possa costituire un superamento delle feroci critiche al medico postmoderno per accedere al paradigma di guida/cooperazione, con il consolidamento (sociale e cinematografico) del paziente autocurante che potrebbero costituire il primo passo verso il terzo modello di Satsz e Hollander, quello della mutua comprensione, secondo il quale il paziente assumerebbe i connotati di un “incontro” anziché di un rapporto: incontro di due storie di vita, di due persone che, prima di ogni altra cosa, devono imparare a comprendersi nei loro diversi saperi, linguaggi, bisogni, aspettative, soggettività, paure; un incontro paritario, e per niente asimmetrico.
Insomma questo film-tv come ha sempre fatto il cinema ci mosterà, come scrive Silvio Beccastrini in “Lo specchio della vita: Medici e malati sullo schermo del cinema”, Edito sette anni fa da Change di Torino, “gli effetti sociali delle nostre risposte, o delle nostre mancate risposte ad esse”.