Ogni città racconta e accoglie, in un grande romanzo popolare, le proprie culture e le proprie generazioni. Quelle città che non riescono più a farlo diventano il vuoto a perdere della propria apatia ed indifferenza. Per fortuna, le latitudini meridionali, così spesso svendute ai giochi di affarismo economico e politico, si dimostrano più resistenti al logoramento delle parole e danno anche bella narrazione di sé, dalla voce dei propri figli. L’antologia recentemente pubblicata dalla Casa Editrice “Coessenza”, dal suggestivo titolo “Questi Anni. Cosenza ’80. Memorie, ricordi e racconti”, esprime grande coralità, in uno dei decenni più difficili (e, solo col senno di poi, entusiasmanti) della città calabrese. C’è molta pessima letteratura sul presunto elitismo di Cosenza, nel novero dell’economia e della cultura regionale. La verità è che se i costumi e le alternative della città hanno cominciato a correre, lasciandosi alle spalle per brandelli di insubordinazione, gioia e critica, tutti gli apparati culturali che allignano altrove, in Calabria, ciò è largamente merito di chi si è stancato di subirli e propone con dignità e decoro e allegria modelli di socialità realmente altra.
Gli anni Ottanta a Cosenza sono l’istantanea di un cataclisma. I problemi ritornano nelle pagine della raccolta di racconti: il dilagare dell’eroina, una extralegalità diffusa e coessenziale che spesso si snatura in vera e propria criminalità organizzata, il lavoro che manca, le intelligenze giovanili prese a calci, l’assenza di ritrovi ludici che non corrispondano ai dogmi del bar fighetto o dell’adunata stradaiola. Il coprifuoco notturno e la voglia di star fuori tutta la notte (e di farlo davvero). L’epopea della squadra di calcio, con la curva che diventa la pancia di cemento che nutre un figlioletto riottoso e non addomesticabile. Servizi pubblici essenziali ridotti a merce di scambio di un assistenzialismo più o meno di massa, e comunque e sempre deficitario.
A vedere le biografie degli autori, riportate a margine del volumetto, ci si rende conto che sono, in realtà, transitate per gli anni Ottanta cosentini almeno due generazioni di ragazzi. Chi superava i quindici anni e chi si avvicinava ai trenta. Con pari fratellanza sotto il cielo caratteristico e umido della terra delle confluenze (Crati e Busento). E infatti nelle pagine del libro capita di imbattersi in nevicate e afa. In sale da gioco e punk. In sagre di paese e spettacoli teatrali di nicchia. In pratiche collettive rivendicate (a tavola, per strada, dovunque) e in esperienze di persino drammatica segregazione personale.
Chi sa di storia potrebbe menare il can per l’aia, dicendo che, in fondo, gli anni Ottanta sono stati solo l’amara parentesi del riflusso. Tra la generazione sconfitta degli anni Settanta e quella in divenire dei centri sociali, modello “anni Novanta”. Fino a un certo punto… La cosa bella della storia è che quando la si vive, non c’è tempo di fare elucubrazioni meta-sistematiche. Si ritagliano esperienze, vulgate, impressioni, sogni. Anche amori. Anche approcci sbrigativi con l’altro sesso e il sano atteggio giovanile che a volte definisce la propria intenzione di identità non allineata nel mondo.
I tanti scrittori di questo percorso comune, oltre a scrivere, appunto, benissimo, hanno storie diversissime. E anche una formazione irriducibile. Dal terzo settore (il “privato sociale” del centrosinistra neokeynesiano) all’università; dalla realtà del quartiere degradato alla migrazione di ritorno; dall’informazione indipendente al mettere su casa, famiglia, pranzo e cena.
Eppure con entusiasmante verve alcune cifre stilistiche comuni ci sono. Un uso spregiudicato e azzeccato di slang, frammisti di dialetti e dominante cultura anglofona (nella musica, nei drappi, nella stessa letteratura). Una carenza di punteggiatura che sa di oralità e “dramma”, fatto, azione, movimento e compimento. La presa diretta di un mondo che cambia con la precisa intenzione di travolgere e asservire: togliere innocenze, vizi, scoperte. Asservire menti, corpi, bisogni.
Gli autori di “Questi Anni” esprimono il modo in cui le due generazioni (almeno) raccontatevi hanno cercato di riprendersi il maltolto. E ogni cosa restituita è stata ridonata, con l’aneddotica di piazza, alla percezione comune. Tutti i racconti meriterebbero menzione a parte… Il lessico asciutto del giornalista Leporace, forse ancor più a proprio agio con le sue memorie da “furioso” che con la cronaca giudiziaria, l’erudizione ellittica e onirica di Dionesalvi, le tante monelle del decennio che suonano il blues di “Cosangeles”, i rapidissimi e stralunati squarci teatrali di Stellato. La verità, comunque, è scritta sin dal primo racconto (di Loredana Caruso).
Nello sciamare del sabato sera, la voce narrante, con geniale intuizione letteraria, chiude, scrivendone oggi, col suo sogno di ieri… dovrà pur arrivare questo benedetto 1990!
Domenico Bilotti