Adesso che, ancora una volta, l’italico vizio di attribuire frettolosamente la patente di vincitori e vinti è stato soddisfatto, possiamo esaminare con più distacco – e possibilmente più acume – la partita che si è giocata in parlamento sulla fiducia al governo. Partita che non è stata solo quella che si è svolta in casa Pdl o tra Letta e Berlusconi, bensì quella, molto più complicata e trasversale, che ha attraversato, con incroci inconfessati, i due partiti e i diversi schieramenti. A quanto risulta a TerzaRepubblica, infatti, Berlusconi si era mosso nella direzione della sfiducia al governo, e conseguenti elezioni anticipate, perché forte di un accordo segreto con una parte del Partito Democratico. E più specificatamente con coloro che, avversando Letta e la neo-democristianizzazione dell’esecutivo e dello stesso Pd, avevano interesse a far saltare il banco. Capire di chi si tratta non è difficile, basta sfogliare i giornali di questi mesi e vedere le posizioni prese da ciascun protagonista, che stia dentro o fuori dal parlamento.
Qualcuno sostiene che questa convergenza d’interessi si sarebbe estesa anche al voto (segreto) in aula sulla decadenza da senatore di Berlusconi, ultimo baluardo vista l’inevitabilità del voto negativo (per il Cavaliere) in giunta, come è puntualmente successo ieri. Difficile dire se l’ardimento di quel patto si spingesse davvero fin qui, e se poi avrebbe retto alla prova del fuoco. Sta di fatto che quell’inedito asse è stato sconfitto prima ancora di manifestarsi dal meno inedito ma pur sempre trasversale asse tra i moderati del Pdl capitanati dai ministri – quelli che, tradendo l’abitudine a pensare padronale, sono stati chiamati (nel migliore dei casi) i transfughi – e la componente lettiana del Pd. Il duo Alfano-Letta, come si è detto semplificando. Cui bisogna aggiungere tutti quelli di Scelta Civica che, di fatto, hanno ormai abbandonato Monti – capitanati da Mario Mauro – e Casini. Qui sono stati in molti, in queste ore, a pronosticare una convergenza così forte sia la premessa della nascita di un nuovo partito, e che questo abbia se non le sembianze il ruolo della vecchia Dc. Ora, a parte l’improponibilità di certi parallelismi storici, è tutto da capire se questo fronte abbia più chance dell’altro di sopravvivere alla congiuntura politica. Certo, il duo Alfano-Letta apparentemente ha vinto, fino al punto da costringere Berlusconi alla penosa retromarcia dell’ultimo minuto (che gli è costata sul piano psicologico più ancora che politico, come ha potuto constatare chi gli ha fatto visita subito dopo il passaggio parlamentare). Ma le incognite sono molte, e non facili da sciogliere. Per esempio, il gruppo capitanato da Alfano (ma non meno da Formigoni e Lupi) riuscirà a reggere al rinculo del Cavaliere, che sta tentando e tenterà di fare di tutto per evitare la disgregazione del Pdl? Perché è evidente che costoro potranno esistere politicamente e contribuire all’ordito della nuova aggregazione trasversale soltanto confermando la scelta di costituirsi come gruppo parlamentare e come partito in modo autonomo e solo se alla base della loro linea politica non c’è più l’adesione incondizionata al bipolarismo. I bookmaker a quanto danno le scommesse su queste due cruciali questioni?
Ma problema non meno pesante è quello che si vive in casa Pd, per ora velato dalla maschera di apparente euforia che tutte le componenti hanno indossato di fronte alla fiducia ricevuta dal governo. Perché dentro al Pd ci sono almeno tre anime più Renzi. Ci sono i lettiani, di stretta e meno stretta osservanza, che sono ringalluzziti dalla fiducia ma preoccupati che Alfano e soci non riescano a tenere. Poi ci sono quelli che volevano la caduta del governo, fregati dal dietrofront di Berlusconi. E poi c’è la sinistra, che voleva e vuole solo la testa del Cavaliere. Quindi Renzi, che ha oscillato vertiginosamente tra le diverse posizioni e che ora vede allontanarsi palazzo Chigi (suo vero obiettivo) ma anche la segreteria del Pd. Chiaro che quel colpo di scena di Berlusconi ha messo tutte le anime Pd in difficoltà, e presto ne vedremo le conseguenze.
Infine, c’è il tema del governo in quanto tale. È evidente che se si considera il rischio corso, può cantar vittoria. Solo che adesso non ha più alibi. L’epilogo della (mancata) crisi di governo, creando di fatto, dentro le larghe intese, una maggioranza più ristretta, ma sufficiente, che potremmo chiamare di “intese coese”, determina una condizione politica che può – e deve – consentire a Enrico Letta di dare all’esecutivo quella forza decisionale che finora non ha avuto. Non più mediazioni preventive, inevitabilmente al ribasso, ma un “vasto programma” di riforme strutturali che diano un senso all’incontro tra Pd e Pdl, necessitato per ragioni di esito elettorale ma non per questo meno indispensabile per prendere quelle decisioni, anche impopolari, che finora i due poli del nostro sgangherato bipolarismo separatamente non erano riusciti ad assumere. Tanto più necessarie, queste scelte, per via del fatto che la politica nel suo insieme ha toccato il fondo in termini di credibilità popolare, e dunque dare consistenza al governo e lanciarlo verso una vita che vada ben oltre le elezioni europee dell’anno prossimo (diciamo almeno fino al 2015) diventa fondamentale non solo per il bene del paese ma anche per la sopravvivenza stessa di queste forze politiche. Che se fossero andate ad elezioni subito, avrebbero perso altri milioni di voti dopo i 10 milioni di elettori che complessivamente le hanno abbandonate alle ultime politiche, andando incontro all’ennesimo pareggio che le avrebbe costrette a rimettersi insieme per tentare di mettere insieme uno straccio di maggioranza parlamentare. Infatti, nell’ingaggiare il braccio di ferro intorno al “caso Berlusconi”, Pd e Pdl hanno dimostrato di non aver capito che dalla vicenda nessuno poteva uscire vincitore per il semplice motivo che tutti ne sarebbero usciti inesorabilmente perdenti, accomunati dal discredito generalizzato degli italiani, per nulla disposti a fare distinzioni. Ergo, l’unico modo per evitare un destino altrimenti segnato è ora quello di ritrovare le ragioni dello stare insieme – cioè realizzare unite ciò che separatamente le due coalizioni non erano state capaci di fare – e mettere in condizioni il governo di spiccare il volo. Cosa ci sia da fare è arcinoto: smetterla con le scaramucce su questioni marginali come Imu e Iva, per mettere mano ad un vero e proprio piano Marshall di salvezza e rilancio del paese.
Bene, dunque, che il governo non sia caduto e prosegua il suo cammino. Ma anche qui: chi scommette che sappia davvero cambiare passo?