Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944). Stefano Fabei sul suo ultimo libro edito da Mursia

Giovanna Canzano

intervista

Stefano Fabei

10 luglio 2013

È uscito in questi giorni, edito da Mursia, Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944), saggio in cui Stefano Fabei ricostruisce, sulla base di una vasta documentazione d’archivio, la storia della città industriale umbra nel Ventennio, le origini e gli sviluppi del sindacalismo fascista e del corporativismo, le vicende belliche fino alla Repubblica sociale e all’elezione, nel 1944, delle commissioni di fabbrica, di cui fecero parte anche elementi antifascisti; il tutto accompagnato dalla narrazione dell’attività di Maceo Carloni, un sindacalista mazziniano, il quale, dopo essere stato antifascista, aderì al regime credendo che questo potesse realizzare una maggiore giustizia sociale, sogno destinato a finire in modo tragico per tutta una serie di ragioni che Fabei ci illustrerà nel corso dell’intervista.

Canzano 1- Professor Fabei, in questo suo ultimo lavoro lei affronta una serie di argomenti riguardanti vari temi. Prima di tutto vorremmo sapere come mai con questo libro la sua attenzione si è, per così dire, ristretta, dall’ambito nazionale, o addirittura internazionale, dei suoi saggi precedenti, a un contesto più limitato, almeno geograficamente parlando.

FABEI – Per la verità quello ternano è stato, ed è ancora, un centro importante dal punto di vista della storia industriale non solo a livello locale o regionale, ma sul piano nazionale. A parte ciò, Terni è uno dei due capoluoghi della mia regione e c’è stato quindi anche il desiderio di conoscere una realtà storica a me vicina. Potrei aggiungere inoltre che, se sul periodo fascista di questa città già è stato scritto, qualcosa di molto significativo è stato volutamente ignorato da una certa storiografia, più o meno politicamente schierata, in quanto ritenuto imbarazzante o vergognoso…

Alcuni anni fa lessi due saggi pubblicati da esperti di storia ternana. Il primo, Una vittima della guerra civile: Maceo Carloni, pubblicato da Vincenzo Pirro su «Memoria Storica» nel 1999, raccontava la vita e l’attività di questo sindacalista assassinato nel 1944 dai partigiani della brigata “Gramsci”. Il secondo, scritto da Marcello Marcellini, I giustizieri. 1944: la brigata «Gramsci» tra Umbria e Lazio, portava alla luce alcune tragiche pagine della guerra civile in Umbria che ebbe tra le sue vittime proprio Carloni…

Canzano 2- Ma il suo libro riguarda argomenti che vanno ben al di là delle vicende di questo operaio sindacalista…

FABEI – Sì: in effetti Fascismo d’acciaio è un libro complesso, nato dalla volontà di capire e contestualizzare l’eliminazione di quest’uomo, il quale se da principio fu antifascista, si avvicinò progressivamente al regime. Mazziniano convinto, sempre molto impegnato in campo sociale e sindacale, dotato di una grande e forte personalità, fatto questo che gli creò non pochi problemi con i caporioni in orbace, si accostò al fascismo con un atteggiamento critico, in quegli anni poco di moda. Non è un caso che sulla sua figura e su quella che fu la sua eliminazione, nonché sui già citati studi relativi a questa, si siano accese polemiche, dietro cui si celava la volontà di far dimenticare che Carloni, oltre ad avere un passato di sindacalista in camicia nera, il 1° marzo 1944, momento in cui Terni faceva parte della RSI, insieme ad alcuni socialisti, anarchici e comunisti, era stato eletto nelle commissioni di fabbrica dalle quali nel dopoguerra sarebbero sorti i consigli di gestione, presi a modello dal più importante e rappresentativo sindacato italiano, la CGIL.

Ebbene, la volontà di comprendere questa pagina di storia mi ha portato non solo a studiare la sua vita, politica e sindacale, ma a contestualizzarla in un quadro più ampio, quello appunto della città industriale nel periodo fascista. Da qui la necessità di affrontare, oltre alla storia di Terni come centro industriale, le origini del fascismo locale, del sindacalismo, del corporativismo e delle organizzazioni sociali create a tutela dei lavoratori, organizzazioni di cui Carloni fece parte, ricoprendovi ruoli di responsabilità, almeno fino a un cero momento. Voglio qui ricordare, infatti, che egli non aderì alla RSI e non si iscrisse al Partito fascista repubblicano, pur continuando a svolgere attività in difesa di quei lavoratori tra i quali godeva di stima, motivo per cui a un certo punto qualcuno ritenne opportuno eliminarlo.

Canzano 3- E quindi?

FABEI – E quindi cominciai a studiare i documenti dell’archivio Carloni, in parte depositati presso la «Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice» di Roma, in parte conservati dai figli: l’archivio di un sindacalista che per 15 anni si era trovato a capo dei metallurgici ternani, ricoprendo vari incarichi e svolgendo missioni importanti a livello sia locale sia nazionale, scrivendo di temi del lavoro e dell’assistenza su fogli sindacali come «Acciaio» e «Il Lavoro Metallurgico». Altre fonti cui ho attinto sono state: l’Archivio Centrale dello Stato, gli archivi di Stato umbri, l’Archivio dell’Istituto Gramsci e quello della Società «Terni», oltre a quelli dei tribunali di Roma e di Terni.

Messomi al lavoro, il progetto iniziale si è così allargato, facendo prendere corpo all’idea di un libro che affrontasse argomenti di più ampio spettro: tappe cronologiche di un percorso che mi ha portato a studiare sia gli aspetti legati alle organizzazioni sindacali – dai contratti collettivi di lavoro all’assistenza sanitaria, previdenziale e dopolavoristica, dalla mutualità al collocamento – sia l’attenzione della stampa di allora verso i grandi temi del sindacato dell’industria, sia, riguardo al periodo della RSI, l’elezione, anche a Terni, delle commissioni di fabbrica, di cui fecero parte anche elementi antifascisti.

Canzano 4- Quali erano le caratteristiche del sindacalismo fascista nel ventennio, a Terni in particolare?

FABEI – Quello in cui si mosse il sindacalismo fascista nella città umbra, dove lo Stato rivelò la sua presenza come istituzione politica e come imprenditore, fu un contesto caratterizzato ovviamente dalla presenza della grande industria e della classe operaia. Sebbene nel 1923, pochi mesi dopo la marcia su Roma, la sezione ternana del sindacato fascista contasse più di 3.000 iscritti, Tullio Cianetti, che sarebbe poi diventato ministro delle Corporazioni, comprese come un sindacalismo da una parte piccolo borghese, dall’altra agricolo, non potesse bastare ad assicurare al movimento sindacale fascista la necessaria e auspicata consistenza quantitativa e qualitativa: in un’importante città industriale occorreva quanto prima conquistare le masse operaie, più numerose e dinamiche. Per tale ragione si orientò in questa direzione, approfittando della crisi della CGdL e delle organizzazioni a essa collegate. L’obiettivo, in sintesi, era la conquista degli operai attraverso la critica al sindacato di classe, difendendo e diffondendo i presupposti ideali del sindacalismo fascista. Il momento era favorevole perché, al di là dei differenti schieramenti, tra fascisti e socialcomunisti esisteva – anche se era impossibile al momento pervenire a un’intesa – un’idea di fondo condivisa, che lo Stato liberale all’antica maniera stesse per morire e dovesse morire. Il fine per i fascisti era coniugare l’interesse economico nazionale con la difesa del mondo del lavoro, come aveva teorizzato Mussolini nel primo dopoguerra.

A metà del 1923, la Sezione sindacale di Terni era una forza che garantiva al sindacalismo fascista la possibilità di contrastare con efficacia l’offensiva degli industriali. Ci furono allora momenti di convergenza con il sindacalismo rosso: nel 1925, l’unità d’azione venutasi di fatto a stabilire tra sindacalismo fascista e FIOM destò viva preoccupazione negli ambienti industriali e finanziari.

Gli ambienti conservatori favorevoli al fascismo, visto come male minore rispetto al bolscevismo, avevano guardato con preoccupazione all’atteggiamento assunto dal Duce nei confronti del sindacalismo di sinistra. Il 1924 avrebbe reso ancora più difficile un’eventuale conciliazione fra i rossi e i neri che comunque si sarebbero ritrovati fianco a fianco, come sopra detto, l’anno dopo, in occasione dell’offensiva del febbraio-marzo 1925, contro la Confindustria e il mondo industriale in genere, avviata dal sindacalismo fascista per uscire dalla situazione di stallo.

Nello stesso tempo la Società «Terni», sotto la direzione di Arturo Bocciardo, iniziava una politica sociale sempre più organica, mirante a ridurre per gradi i confini tra fabbrica e città, con la creazione di opere assistenziali, con la costruzione di case, scuole, ospedali, campi sportivi per gli operai e l’istituzione, nel 1925, dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Era questa la nuova strada che il fascismo imboccava per conquistare il consenso delle masse operaie invano cercato dal sindacalismo in camicia nera negli anni precedenti, compiendo anche, nella soluzione delle vertenze, interventi paternalistici.

Canzano 5- Del corporativismo fascista cosa può dirci?

FABEI – Domanda complessa, cui cercherò di rispondere sintetizzando al massimo… Possiamo distinguere tre fasi principali del corporativismo fascista, la prima delle quali, dal 1922 alla crisi del 1929, si caratterizzò per i dibattiti, in Italia e in Europa, sui cambiamenti in corso nel capitalismo e sulle irreversibili trasformazioni che, disarticolando ogni struttura della società in rigide classi contrapposte, rafforzavano la consistenza e il ruolo di gruppi e interessi organizzati. Momenti importanti di questa fase furono la legge n. 563 sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro, del 3 aprile 1926, e la «Carta del Lavoro». La seconda fase, dal manifestarsi della suddetta crisi alla costituzione delle corporazioni, con la legge n. 163 del 5 febbraio 1934, e all’effettiva istituzione, nella primavera successiva, dei gruppi di corporazioni, si caratterizzò per i tentativi di definire le caratteristiche metodologiche e i contenuti della «nuova scienza» dello Stato e della società: una dottrina corporativa che, rappresentando la sintesi di discipline sociali e giuridiche non più disgiunte tra loro, riuscisse a organizzare e legittimare lo Stato italiano quale tipo storicamente nuovo e originale di organizzazione della convivenza politico-economica e sociale. La terza fase, compresa tra la metà degli anni Trenta e il 1943 – passando attraverso il periodo dell’autarchia e la nascita, nel 1939, della Camera dei fasci e delle corporazioni – si caratterizzò per il crescente manifestarsi delle difficoltà di innestare le corporazioni sul tronco dell’organizzazione politica e burocratico-amministrativa statale. In questo ultimo periodo si accese il dibattito sulla contraddittorietà tra un «corporativismo puro e integrale», incentrato sul rifiuto di un inserimento delle corporazioni dentro l’ordine statale, e una progressiva identificazione tra Stato e partito, imprescindibile per realizzare la perfetta equivalenza tra unità politico-territoriale e unità economica, mediante la subordinazione degli interessi particolari a quello unitario della comunità nazionale. In questi venti anni di dispute accademico-dottrinali l’elemento comune e costante fu il rapido accumularsi di leggi e istituti del regime fascista, da intendersi come «lo stato nell’atto del suo prodursi».

Canzano 6- Cioè?

FABEI – A circa diciotto mesi dalla pubblicazione della «Carta del Lavoro», una legge del 13 dicembre 1928 autorizzava il governo e il Re a emanare disposizioni per la sua completa attuazione. Nella relazione esplicativa del documento, Giuseppe Bottai davanti al Gran Consiglio spiegò che l’anima rivoluzionaria del fascismo non poteva accontentarsi di una sistemazione tecnica e giuridica delle norme sul lavoro esaurendosi nella procedura consueta delle leggi; la «Carta del Lavoro» intendeva perciò essere la base non solo di un indirizzo legislativo, ma del nuovo modo di vivere di tutta la società italiana. Per il sottosegretario al ministero delle Corporazioni a tradurre i postulati della Carta in norme giuridiche positive aveva provveduto la quotidiana prassi contrattuale, dato il suo valore morale e la disciplina politica delle organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori; quanto alla prassi giurisprudenziale essa aveva visto l’affermarsi dell’efficacia giuridica delle dichiarazioni, sia come principi generali cui doveva ispirarsi la legislazione sociale, sia come criteri di valutazione di equità per il giudice nelle controversie di lavoro.

Canzano 7- Può dirci qualcosa di più sulla «Carta del Lavoro»?

FABEI – Grazie a questa il fascismo poté presentarsi con un volto rivoluzionario; tra il capitalismo e il comunismo quella mussoliniana era la «terza via», l’unica efficace per «andare verso il popolo» e lottare contro i privilegi delle oligarchie economiche; si trattò di un passo significativo, soprattutto in un momento che, ripetiamo, non era certo favorevole a causa sia della crescita della disoccupazione, sia della recessione determinata da una politica protesa a stabilizzare il valore della lira a «quota 90». Il principio basilare espresso nel documento era quello della collaborazione di classe e della subordinazione degli interessi produttivi a quelli nazionali. Per quanto collegata e armonizzata da un fine comune, l’iniziativa privata rimaneva comunque il cardine fondamentale dell’economia italiana, come confermavano le tre misure di costruzione dell’ordinamento corporativo precedenti di qualche mese l’emanazione della «Carta del lavoro».

La situazione continuava a essere favorevole a Confindustria, non solo perché i dirigenti del sindacato erano nominati dai vertici del regime, ma anche perché era respinta la proposta di «corporazione integrale» sostenuta da Rossoni, mirante a imbrigliare, in un’unica organizzazione mista, dei lavoratori e dei datori di lavoro, la rappresentanza padronale, togliendole autonomia. Tuttavia il sindacato, giuridicamente riconosciuto, trovava degna collocazione nell’ordinamento statale e alle Corporazioni, intese come «organizzazioni unitarie delle forze di produzione» e riconosciute come organi dello Stato, spettava il compito di regolare tutti gli aspetti della produzione. Secondo la «Carta del Lavoro» unico obiettivo per lavoratori e industriali doveva essere la grandezza della Nazione, pertanto le corporazioni sarebbero state la casa comune dove si trovavano a collaborare e interagire capitale e lavoro.

Canzano 8- Il mazziniano Carloni che rapporti ebbe con il fascismo? Quale fu il suo ruolo?

FABEI – Operaio specializzato alle Acciaierie «Terni», Carloni ricoprì gratuitamente vari incarichi che non lo preservarono da sospetti, espulsioni e reintegrazioni nelle organizzazioni sindacali e assistenziali, come raccontato nel libro. Pagò spesso per il suo anticonformismo e per la sua adesione critica, e insieme costruttiva, al regime.

Canzano 9- Della lunga attività del Carloni sindacalista, può raccontarci un episodio che, per così dire, ha lasciato il segno?

FABEI – Nel giugno del 1940, nella sede romana della Confederazione degli industriali, come rappresentante della categoria, intervenne alla firma del «Contratto collettivo nazionale di lavoro per gli operai degli stabilimenti siderurgici»: al tavolo erano presenti il commissario ministeriale Arturo Bocciardo per la Federazione degli industriali metallurgici, e Amilcare De Ambris, segretario nazionale della Federazione nazionale dei lavoratori delle industrie meccaniche e metallurgiche.

Questo, come tutti i contratti corporativi, era valido «erga omnes», perché dotato di forza di legge, anziché nei soli confronti degli iscritti ai sindacati e alle associazioni padronali stipulanti. La sua efficacia non cessò con la caduta del regime, ma si protrasse nel dopoguerra, fino alla «Legge Vigorelli» del 4 luglio 1959, che prevedeva la possibilità di estendere verso tutti, mediante singoli decreti legislativi, l’operatività dei contratti postcorporativi. Ciò significa che il regime repubblicano rispettò la disciplina collettiva dei rapporti di lavoro corporativi, in particolare quelli riguardanti gli operai siderurgici, ritenendola non in contrasto con le norme della Costituzione, in particolare con l’articolo 39. In caso contrario, quei contratti non avrebbero potuto resistere al controllo, da parte dei giudici, della loro compatibilità con le disposizioni della carta costituzionale. Queste considerazioni valgono, in particolare, per le clausole del contratto dei siderurgici, come, ad esempio, quelle relative all’apprendistato, all’istruzione professionale, al lavoro straordinario, festivo e notturno, alle ferie, alle gratifiche natalizie, al trattamento di malattia, gravidanza e puerperio, e al trattamento di fine rapporto: norme che sono ancora oggi di indubbia modernità.

Canzano 10- Un contratto importante quindi, vista la sua durata ben oltre la firma del fascismo…

FABEI – Certamente, anche se Carloni espresse a riguardo qualche critica, confermando la propria libertà di giudizio. Intervenendo su «Il Lavoro Metallurgico» a proposito del contratto elogiò le conquiste che sia sul piano retributivo sia su quello normativo erano state raggiunte grazie al «pieno sviluppo della più alta giustizia sociale» promossa dal regime. Pur esaltando lo spirito del contratto, ne vide tuttavia i limiti che consistevano in una non adeguata valorizzazione della responsabilità di lavoro, della capacità tecnica e dell’elevato disagio fisico delle maestranze; riserve queste proprie di un sindacalista che conosceva bene i lavoratori delle fonderie.

Canzano 11- Cosa accadde a Terni dopo l’armistizio e durante l’occupazione nazista?

FABEI – Tra l’11 e il 12 settembre 1943 i tedeschi, senza incontrare resistenza, occuparono Terni e gli altri centri dell’Umbria, regione alla quale Kesselring estese l’ordinanza con cui, dopo aver minacciato la pena di morte per gli organizzatori di scioperi, sabotatori e franchi tiratori, avanzò una richiesta di collaborazione. Le forze armate germaniche si riservarono quindi il potere politico-militare, lasciando alle superstiti autorità italiane i compiti amministrativi ed esecutivi.

A Terni, e nel resto dell’Umbria, nelle settimane successive all’armistizio non si verificò niente che potesse sembrare una rivolta contro i tedeschi: a dominare fu il senso di sbandamento e desolazione. La stanchezza colse soprattutto i militari che si dettero alla macchia per evitare lo scontro con i tedeschi e restarono inattivi, a differenza delle bande partigiane dirette dai comunisti, in particolare di quella guidata da Filipponi e stanziata sulle Forche di Arrone. Anche le formazioni comuniste rimasero però isolate, non riuscendo a coinvolgere operai e contadini in un’azione di massa. Almeno fino all’inverno del 1943, non riuscirono a collegare l’attività militare a quella politico-ideologica. Del resto i militanti comunisti a Terni erano poche decine e poco organizzati, come attestato da documenti provenienti dalla loro parte.

Tra l’estate del 1943 e la primavera del 1944, la città fu vittima di 108 bombardamenti effettuati per terrorizzare gli abitanti e paralizzare gli stabilimenti industriali, senza distruggerli, obiettivo conseguito con l’abbandono quasi totale della città, le cui aziende furono messe nella condizione di non produrre, mentre i partigiani riuscirono a controllare un territorio di circa 1000 chilometri quadrati tra le province di Rieti, Macerata e Perugia, area di notevole rilevanza per le operazioni militari a ridosso del fronte, provocando la dura reazione dei tedeschi che in aprile effettuarono un rastrellamento nella zona di Norcia e Cascia, operazione propedeutica alla propria ritirata, facendo terra bruciata intorno ai partigiani.

Canzano 12- Cosa fecero i fascisti ternani in quel momento?

FABEI – Il PFR sviluppò la propaganda per l’arruolamento nell’esercito di Graziani, nella GNR e nel servizio del lavoro, pubblicando, fra l’altro, con cadenza settimanale «Prima linea», «giornale operaio», allineato a quel corporativismo di sinistra che sembrava adesso poter avere maggiore peso e rappresentatività, e che scelse quali interlocutori privilegiati i lavoratori dell’industria che si volevano attirare sul terreno concreto delle questioni sindacali, del lavoro e della socializzazione: tentativo tardivo in cui le dichiarazioni di principio e le buone intenzioni vennero a trovarsi in contrasto con la realtà politica e le esigenze dell’economia bellica.

La dignificazione del lavoro e la socializzazione delle imprese, di cui si fece banditore il suddetto foglio, per quanto fossero argomenti suggestivi, si sarebbero rivelate formule astratte. La città e il territorio circostante avrebbero infatti presto conosciuto la paralisi quasi completa della grande industria, mentre molti lavoratori avrebbero dovuto rapportarsi con le esigenze, imposte dalla guerra, delle organizzazioni del lavoro, italiane e tedesche. Ciononostante il fascismo locale riuscì a svolgere, in collaborazione con gli enti pubblici, una significativa attività nel settore dell’assistenza, della protezione civile, del soccorso ai sinistrati, agli sfollati e ai profughi.

La RSI riattivò, potenziandolo, il sistema assistenziale preesistente e l’amministrazione civile si mise all’opera a Terni e provincia per assistere militari e civili, assicurare l’indennizzo delle requisizioni e il finanziamento delle imprese improduttive, assicurare l’approvvigionamento alimentare e difendere dalle incursioni aeree alleate una città di rilevanza strategica ed economica non solo per i tedeschi e per gli anglo-americani, ma anche per le forze della Resistenza, le cui formazioni, composte in prevalenza da ex prigionieri slavi, disertori e renitenti alla leva, legate e guidate dal PCI, ambivano a controllare una zona che, oltre a essere importante sotto il profilo produttivo e militare, ospitava una gran quantità di operai sui quali bisognava puntare per attuare un’operazione politica rivoluzionaria.

Tra il 1943 e il 1944, Terni fu quindi teatro di una drammatica partita a tre, di cui avrebbero pagato le spese e subito i contraccolpi i civili e il sistema produttivo, con l’accanimento militare degli Alleati sui centri abitati, con le spoliazioni degli stabilimenti industriali perpetrate dai tedeschi, con la conquista della «zona libera» di Norcia e Cascia da parte dei partigiani della brigata «Gramsci», con l’attività di repressione della Resistenza, in cui rimasero vittime molti civili. La lotta partigiana nell’area di Terni, come del resto in Umbria, assunse però una connotazione più blanda rispetto al movimento partigiano nazionale.

Canzano 13- Prima ha accennato alla scarsa incisività dei comunisti in quel in quel momento. Cosa può dirci a riguardo?

FABEI – Celso Ghini, designato dalla direzione centrale del PCI ispettore delle brigate «Garibaldi» per il centro Italia, nel saggio La resistenza in Umbria, afferma che qui, anche nell’ipotesi di una rapida liberazione della capitale, si prospettò una lotta duratura che assunse subito le caratteristiche della guerra partigiana: trafugamento di armi e munizioni dalle caserme, dai depositi, dalle polveriere, attacchi contro gruppi isolati di tedeschi e fascisti, contro caserme della milizia fascista e dei carabinieri. Non si trattò tuttavia di un’opposizione molto organizzata. Come dichiarò poi lo stesso Ghini, mancò l’organizzazione sistematica della Resistenza, fatta di incontri quotidiani con cittadini e operai, di programmi concordati ed obiettivi studiati. A Terni, forse, gli aggregati sociali cittadini, forieri di input antifascisti, non ci furono anche per i continui allarmi aerei. Il CLN non organizzò mai nemmeno una linea strategica da impartire alla guerriglia partigiana e la lotta armata organizzata e i GAP, che operarono a Roma, in Toscana e nella Valle Padana, in Umbria furono del tutto assenti. Nel periodo in cui il territorio ternano fece parte della RSI non furono organizzati scioperi operai o mobilitazioni cittadine, come invece accadde in altre regioni settentrionali.

Canzano 14- Ed allora, cosa fu la Resistenza in Umbria?

FABEI – Il movimento antifascista fu in questa regione soprattutto guerriglia, senza obiettivi ambiziosi. I criteri operativi iniziali in principio previdero azioni di disturbo senza impegnarsi a fondo con i tedeschi e, solo in un secondo momento, furono individuati come obiettivi da colpire uomini e cose, sia tedesche sia fasciste. Fino alla primavera del 1944, l’attività partigiana nel Ternano si espletò in attacchi e sabotaggi; dopo il grande rastrellamento germanico dell’aprile 1944, questa assunse i toni e i colori della rabbia, colpendo, comunque, non obiettivi militari strategici, ma uomini e donne in odore di fascismo e collaborazionismo. A parte ciò, a Terni la formazione di bande partigiane comuniste fu lenta per la riconosciuta incapacità di svolgere un lavoro di massa e la vicinanza del fronte determinò una sorta di attendismo nella popolazione, determinando scarse adesioni sia al movimento partigiano sia alla repubblica mussoliniana.

Canzano 15- Gli antifascisti, in particolare i comunisti, come si rapportarono allora con i sindacalisti fascisti?

FABEI – I comunisti nel 1943 erano ridotti a poche decine di militanti; qualcuno si era compromesso con il regime, qualcun altro aveva fatto atto di sottomissione al Duce ed era pertanto visto con un certo sospetto dai vertici del partito. Tra i sindacalisti fascisti, Carloni, che peraltro non si iscrisse al fascio repubblicano, continuò a operare, insieme a pochi altri, a favore delle maestranze.

Nel 1944, sia da parte antifascista, sia da parte dei fascisti, ci fu la volontà di protestare e opporsi al prelevamento operato dai tedeschi dei macchinari e dei materiali industriali. Ai compagni occupati negli stabilimenti e nei cantieri giunse la direttiva di nominare e far riconoscere dalla direzione le commissioni elette dagli operai, di cui qualche loro elemento doveva far parte, per tentare accordi con le direzioni degli stabilimenti «su un terreno antitedesco», e collegarle al «comitato di partito dell’officina». Pertanto, quando il 1° marzo 1944 a Terni si svolsero le elezioni per la nomina delle commissioni di fabbrica, nella lista furono inclusi, con l’assenso dei sindacati fascisti, elementi di sinistra, non solo comunisti, ma anche socialisti e anarchici, il cui obiettivo era inserirsi nel mondo delle rappresentanze sindacali dalle quali per anni erano stati esclusi. Come avrebbe scritto in seguito Luigi Longo a Togliatti, in vista dell’imminente liberazione era necessario ricordare ai compagni che, appena fosse stato possibile alle masse controllare e dirigere le varie istituzioni operaie in questione, essi ne avrebbero rivendicato il diritto: «Noi siamo contro oggi alle commissioni interne fasciste e ne boicottiamo con tutti i mezzi le elezioni, ma è evidente che domani, a liberazione avvenuta, procederemo immediatamente alla nomina delle commissioni interne operaie…». Certi storici hanno voluto ignorare o minimizzare il fatto che, a Terni, durante la RSI, delle commissioni di fabbrica abbiano fatto parte elementi antifascisti eletti nelle stesse liste insieme a operai e impiegati della parte opposta. Imbarazzante senza dubbio, per loro, ma storicamente provato.

Canzano 16- I nazisti riuscirono ad utilizzare le acciaierie di Terni e come si comportarono i quadri sindacali fascisti.

FABEI – In parte le utilizzarono, in parte decisero di asportarne i macchinari e a questo progetto si opposero appunto sia i sindacalisti fascisti sia i comunisti, gli anarchici e i socialisti che furono eletti nelle commissioni di fabbrica.

Canzano 17- Maceo Carloni era ancora un fascista convinto o pensava che il fascismo fosse finito?

FABEI – Carloni che, ripeto, non si iscrisse al PFR, ritenne suo dovere morale, continuare a operare in favore dei lavoratori e a salvare il salvabile. Era stato fascista, vedendo nel fascismo lo strumento per mettere in atto quelli che erano i sogni di giustizia sociale, ma rimase fondamentalmente un mazziniano, come scritto nel suo testamento: «Sono figlio di popolo, ho amato il popolo, ho combattuto per esso con alta onestà e fede. Sono stato prima Mazziniano poi Fascista, resto Mazziniano perché il grande Apostolo è il primo che ha insegnato al popolo di amare: Dio, la Patria, la famiglia.»

Canzano 18- In quale conteso maturò l'assassinio di Carloni? E quale fu il ruolo dei partigiani in Umbria, in particolare delle Brigate «Garibaldi».

FABEI – In un momento di grande difficoltà per le formazioni partigiane. Nell’aprile del 1944 quelle operanti nella zona di Norcia e Cascia furono sgominate durante le operazioni di rastrellamento compiute dai tedeschi. Particolarmente colpita, la brigata garibaldina «Gramsci» reagì prendendo di mira i fascisti che vivevano isolati in Valnerina, nel tentativo di riacquisire il controllo del territorio. Molte le vittime della rappresaglia partigiana, spesso innocenti. Tra queste Carloni, ingiustamente accusato di essere un caporione fascista, un oppressore del popolo e una spia dei tedeschi. I processi succedutisi nel dopoguerra gli hanno però reso giustizia, dando torto ai suoi denigratori.

Nato a Passignano sul Trasimeno nel 1960, laureato in Lettere moderne, Stefano Fabei insegna a Perugia. Suoi saggi sono apparsi su «Studi Piacentini» e «Treccani Scuola». Collabora a «I sentieri della ricerca», «Eurasia» e «Nuova Storia Contemporanea». Tra le sue opere recenti ricordiamo: Il fascio, la svastica e la mezzaluna (Mursia, 2002), tradotto da Akribeia in Francia nel 2005, Una vita per la Palestina. Storia del Gran Mufti di Gerusalemme (Mursia, 2003), Mussolini e la resistenza palestinese (Mursia, 2005), I cetnici nella Seconda guerra mondiale (LEG, 2006), Carmelo Borg Pisani. Eroe o traditore? (Lo Scarabeo, 2007), La «legione straniera» di Mussolini (Mursia, 2008), Operazione Barbarossa (Mursia, 2010), I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione tra fascisti e socialisti nella repubblica di Mussolini (Mursia, 2011), Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944), Mursia 2013.

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Giovanna Canzano – © – 2013

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