La valenza logo-tipica della caverna, della grotta, assiste la storia del pensiero umano come una simbologia indefettibile: Platone deve creare il mito della caverna per giustificare e rendere accessibile la sua “rarefatta” teoria delle idee; in una grotta nasce il Salvatore e da lì origina un filone del tutto speciale di teologia (ivi compresa la teologia politica, come insegnano Le Goff e Kantorowicz): la soteriologia. Bacone usa la categoria degli “idola specus”, idoli della spelonca, per contrastare una certa interpretazione dell’innatismo -contrasto, in realtà, “ricorsivo”, giacché reagisce all’innatismo opponendovi una serie di idoli apparentemente a-volitivi.
Persino il “mito dell’isola” risente di quello della grotta: non un qui e ora, ma un qui e altrove, dove appare necessario forzare le condizioni esistenziali per assumere decisioni in “condizioni estreme”: Defoe ha bisogno dell’isola per imporre una trama costruttiva di relazioni sociali (un diritto?) diversa da quella dei primordi di urbanizzazione; Ulisse continua a rappresentare l’equilibrio tra l’isola dell’appartenenza (Itaca) e l’isola, anch’essa eterna ma sempre diversa, del momentaneo passaggio. Nei pressi di isole, si svolgono epocali naufragi… Il naufragio, come l’isola, come la grotta, costringe a rivedere le nostre concezioni dell’emergenza, della decisione, della convivenza e della cooperazione.
“Il caso degli speleologi di Lon L. Fuller e alcuni nuovi punti di vista” di Andrea Porciello (Rubbettino, 2012) prende le mosse dall’opera di un giurista cui la dottrina italiana ha spesso dedicato citazioni meramente esornative, non sostanziate dal corpo a corpo con la materialità del testo, né con l’esercizio di precomprensione che è stabilmente preteso da un’efficace attività di traduzione: anche in questo, buona l’idea di Porciello, che decide di sporcarsi le mani anche sul terreno dello splendido esercizio di interpretazione che è, appunto, la traduzione. Cinque esploratori “sepolti vivi” (rubiamo il lessico ai fratelli Rosselli, a Caffi) in una caverna, dopo un crollo: per sopravvivere, fino a che i soccorsi avranno avuto luogo, l’unica scelta ulteriore al digiuno, all’inedia e… all’estinzione, è nutrirsi della carne d’uno di loro. Come scegliere la “vittima salvifica”? Condannarli e come? Condannarli o assolverli in quali circostanze? I voli pindarici non vengono dalla disposizione legislativa, che definisce, con poco margine d’errore, la materialità di quello che è comunemente chiamato omicidio e, in sovrannumero, pure il cannibalismo -che nei diritti secolari può essere spesso desunto nello scempio del cadavere. Evidentemente, bisogna lavorare ex ante (sulla cristallizzazione, sulla “ratio”, degli argomenti che portano all’adozione di quella disposizione legislativa) e, soprattutto, ex post (sulla determinazione di senso che la disposizione legislativa finirà con l’assumere nella valutazione del caso: tutti elementi che NON sono espressi nella disposizione e che non completamente ne son presunti).
Sicuramente, in questo peculiarissimo caso di speleologi, v’è una prospettiva chiara di politica dell’insegnamento giuridico: la dialettica tra metodo casistico e categorie epistemologiche strappate da “storie del pensiero filosofico e politico” precede la stessa ispirazione giuridico-letteraria del libro; la tradizione anglosassone procede fornendo casi singoli, attraverso cui, sollecitando l’interesse del confronto posizionale, risalire ai temi della teoria generale del diritto; la tradizione europea, sempre che davvero questi intendimenti possano avere una qualche valenza descrittiva generale e non falsificabile, si nutre di un approccio basato sulla comparazione, teoretica e cronologica, dei diversi studiosi e delle diverse dottrine. Giustificazione della decisione contro storia del pensiero politico: questo in sostanza il proscenio entro cui ci muoviamo. Ovviamente, nella difesa della metodologia anglosassone, Andrea Porciello assume intenzionalmente come stella polare l’approccio casistico: lo fa, persino, “provocatoriamente”, per rimarcare le insoddisfazioni nei confronti di questa malintesa “dottrina pura della dottrina pura del diritto”, ma dimostra benissimo di aver tesaurizzato del metodo all’europea la vocazione fondamentale (l’unica idonea a reggere al “cambiamento di paradigma” che pare esserci imposto dalla post-modernità) alla scrittura di una minima grammatica fondamentale per parlare il linguaggio della argomentazione.
Il lavoro di Andrea Porciello denota una seria consistenza espositiva, che ne fa strumento didattico assai duttile nell’approccio alle diverse prospettive gius-filosofiche. Difatti, nell’ultima parte del libro, se da un lato la piacevole impressione è che si sia in presenza di un catalogo intenzionalmente aperto, dove ogni paradigma giuridico corrisponde a una classe open-ended di pensatori ad esso riferibili, dall’altro è sin troppo riuscito il gioco di abbinare alle argomentazioni presenti nei pareri specifici addentellati con le argomentazioni addotte dalle diverse dottrine generali (qui, si fanno forti i nomi che gli orientamenti metodologici ed euristici di Andrea Porciello hanno saputo frequentare con gusto nell’ultimo decennio: Rawls e Dworkin, per restare ai tempi nostri, ma anche Bentham, Mill, Hart, “going back in experience”).
Ricalcando la suggestione fulleriana, inoltre, Porciello ricorre a un parco quanto incisivo uso dell’eteronomia, sicché la qualificazione della teoria del personaggio è desumibile, nel sempiterno gioco dei rimandi, anche dal nome prescelto per “presentarlo in scena”; lo studente che si misura col rompicapo fulleriano è un “novizio”, ma forse proprio per questo la freschezza di certe sue ingenuità espositive ha una carica di spunti che sfugge alla originaria e asciutta stringatezza del lessico fulleriano, dove l’elemento narrativo funge più da catalizzatore dell’attenzione sul testo, che non da suo tratto costitutivo in senso proprio (in tal senso, non è blasfemia sostenere che Porciello si sforzi, riuscendovi, di superare la lezione del maestro).
Sicché appar chiaro che all’Autore piace enormemente scrivere, e scrittura di fluida fattura, ma ancor più l’Autore ama profondamente i risvolti didattici della sua esperienza di ricerca, l’insegnamento nella sua relazione inevitabilmente simmetrica, corrispettiva, “docenza/discenza”. Similmente alla vera anima dei musicisti di colore, raccontata dalle canzoni di Clapton, Tosh, Waits e Beck: nel mondo di oggi, un disco nuovo alimenta la routine del far concerti e rimpinguare cassa; alle origini, invece, il concerto stesso era la sede elaborativa principale per iniziare a scrivere un disco.
Non esiste libro giuridico migliore di quello che tragga la propria ispirazione da un corso di lezioni. Non per correre in braccio all’estemporaneità, ma attuandola nella sistemica di griglie teoriche solide, tecnicamente evolute, aperte al confronto creativo.
Domenico Bilotti