Qui Argentina GENTE, FA La “classe” emigrante va in paradiso

“Caminante, non c'è sentiero diventa sentiero l'andare / emigrante non c’é via ma la scia sul mare ”

di Walter Ciccione
A quanti abbiamo scelto l’Argentina come paese di adozione, ci fa piacere constatare la riconoscenza che questa terra prova per il contributo dato dagli immigrati alla sua conformazione, come viene testimoniato anche dal fatto di essere il primo paese al mondo a onorarci stabilendo la “Giornata dell’Emigrante Italiano in Argentina”
Della serie di omaggi di cui siamo stati oggetto, il più recente è stato l’edizione 2012 di “Buenos Aires celebra Italia”, iniziativa del Governo della Città, che si è svolta nella centralissima Avenida de Mayo, con grande successo di pubblico, e la presentazione di musica, balli e l’allestimento di stand per assaggiare e acquistare prelibatezze di origine italica, portate dagli emigrati e in gran parte fatte proprie dalla società argentina.
Anche se si tratta di una proposta attraente e da elogiare, il fatto che venga insistentemente utilizzato lo stereotipo dell’emigrante, del “tano”, la pizza, la tarantella e il vino rosso, da parte di un ampio settore della nostra comunità, tende a opacare l’evento e anche se è giusto includere anche le caratteristiche pittoresche, immagini che fanno parte delle nostre tradizioni e cultura, sarebbe consigliabile offrire anche altri aspetti. Successi conquistati in campo artistico, scientifico e imprenditoriale, per conformare un profilo aggiornato dell’immigrante italiano, rivendicando i valori sempre proclamati di creatività, coraggio, fascino e protagonismo che da sempre gli vengono riconosciuti, e ci hanno contraddistinto nelll’immaginario comune.
Una iniziativa ancora da portare avanti da parte della nostra collettività, sia localmente che in Italia, dove sembra abbiano dimenticato l’epopea di milioni di italiani che hanno fatto grande il nome del Bel Paese nel mondo.
Un debito che coinvolge tutti noi, in modo speciale quanti, immersi nelle vicende della vita di ogni giorno, non facciamo caso a eventi come “Buenos Aires celebra Italia”, il quale, al di la delle critiche segnalate, tende a generare un “effetto contagio”,e sul piano personale, stimolando la voglia di rendere omaggio agli emigrati.
A tanti connazionali dell’ultimo alluvione emigratorio nel secondo dopoguerra, come il sottoscritto, che agli inizi degli anni ‘50, ancora bambini al seguito dei rispettivi gruppi familiari, intrapresero la complessa avventura di emigrare ed essere testimoni dei dolori dello sradicamento, degli sforzi dell’adattamento alla nuova vita e dei sacrifici per realizzare i loro sogni.
Una corrente migratoria, la nostra, che a quanto pare non ha ancora conquistato l’alone che avvolge quella che ci ha preceduto, e che fu immortallata in numerosi romanzi, saggi e film, e anche se abbiamo contribuito a mettere da parte l’immagine del vecchio emigrante con la valigia di cartone, abbiamo mantenuto le stesse attese e illusioni e, al di la di successi o insuccessi, tutti siamo parte della storia del nuovo paese nel quale abbiamo seminato sogni che oggi sono fioriti.
EMIGRARE O NON EMIGRARE QUELLO FU IL DILEMMA…
La storia è nota. C’era lo scenario dell’Italia uscita dalla guerra, distrutta sconfitta, con una situazione economica e sociale drammatica, con la disoccupazione altissima e i governi promuovendo l’emigrazione, per affrontare le limitate possibilità di lavoro. Fatti che determinarono, tra l’altro, che fosse firmato il patetico e denigrante trattato col Belgio, di scambio di persone per carbone, che portò all’emmigrazione di circa 200mila connazionali in quel paese per lavorare nelle mine di carbone. “I musi neri”, com’erano chiamati a causa della polvere di carbone che ricopriva i loro corpi.
Una storia che nel 1956 si manifestò in tutta la sua dramaticità, con la tragedia di Marcinelle.
Si trattava di un contesto che non offriva molte alternative e di fronte alla mancanza di opzioni, prevalse in molti casi la scelta di emigrare, una decisione sofferta, presa perché volevano migliorare le condizioni economiche e di vita e offrire un futuro migliore ai propri figli.
Una decisione che ancora oggi nel Bel Paese si presta a controveresie, tra quanti scelsero di emigrare (“le rimesse sono state un tesoro per l' Italia, il vero motore della ricostruzione, del miracolo economico”), e coloro che sono rimasti (“perché non hanno potuto, non hanno voluto o non hanno avuto il coraggio di emigrare”).
“L’effetto contagio” di cui parlavamo sopra, ha provocato tra emigrati come il sottoscritto, altre conseguenze, come stimolare la nostalgia, la necessità di frugare tra i ricordi. In una specie di Amarcord, sicuramente condiviso, proiettare nella memoria immagini che si succedono una dietro l’altra con la velocità di un fulmine. Il momento della decisione, i preparativi, il saluto al paese e agli amici, l’arrivo nel porto, superare le complicate pratiche burocratiche, i controlli sanitari e infine l’emotività della partenza. Un addio che mai più sarà cancellato dalla memoria. Un Amarcord della nave che va e che, pur se rappresenta un passaporto al fututo, non può nascondere il dolore della separazione dalla terra natia, sentita come una frattura nella vita personale di ogni emigrato. Un Amarcord delle giornate a bordo, dell’immenso oceano Atlantico, testimone di nostalgie e ansie, timori e speranze, legate alla scelta di emigrare. Giorni di orizzonti senza limiti, di chiacchiere che, come una specie di catarsi collettiva che consolidava l’amicizia. Sogni e progetti in qualche modo tornati temporaneamente nei bauli con l’irruzione di un personaggio indimenticabile, Rodrigo, ragazzo spagnolo, salito sulla nave nelle Isole Canarie, che oltre a impegnarsi cercando di insegnarci le prime nozioni della nuova lingua, manifestava la sua ammirazione per il poeta Antonio Machado e in particolare per quei versi in cui parlava di camminatori.
Prendendosi la licenza di cambiare, Rodrigo recitava: “Emigrante no hay camino, se hace camino al andar./ Al andar se hace camino y al volver la vista atrás se ve la senda que nunca se ha de volver a pisar, emigrante no hay camino sino estelas en la mar”…
(Emigrante sono le tue impronte la via e nulla più: /emigrante , non c'è via, il cammino si fa con l'andare”,/ Camminando si fa la strada e voltando indietro lo sguardo si vede il sentiero che mai più si tornerà a calcare./ emigrante non c'è una via ma la scia sul mare” …).
Sotto l’influsso di quei versi, spesso rimanevo a poppa guardando la scia d’acqua che la nave si lasciava dietro.
Un Amarcord della visione del “Rio de la Plata” e la sua ampiezza, la linea dell’orizzonte dove si ritagliava Buenos Aires con i suoi grattacieli, e l’immagine del molo, l’indimenticabile “Darsena A” nella quale migliaia di paesani e connazionali ci davano il benvenuto agitando i loro fazzoletti.
Alcuni hanno fatto l’America, i più hanno conquistato una vita dignitosa, hanno costituito le loro famiglie, educato i loro figli, hanno visto nipoti e pronipoti, che oggi li ricordano con ammirazione e gratitudine.
Davanti a questo variegato scenario, ci viene in mente di proporre l’analogia con quel film “La classe operaia va in paradiso”, nel quale il protagonista, un operaio metalmeccanico, ha il delirio di abbattere il muro dietro al quale ci sarebbe la terra promessa dei lavoratori.
Nel nostro caso, nella ricerca del nostro paradiso, abbimo “abbattuto” l’oceano, provando il dolore dello sradicamento e i sacrifici di guadagnarci il pane in un’altra terra. Un valore aggiunto che ci porta a pensare che effettivamente “la classe emigrante va in paradiso”, che in maggioranza sarà già arrivata e, se così non fosse, non c’è dubbio che, comunque, hanno fatto tanto per meritarlo.
WALTER CICCIONE
ciccioneg@speedy.com.ar

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