CON L’AGENDA DRAGHI LA POLITICA ITALIANA NON PUO’ TORNARE AL BIPOLARISMO FALLIMENTARE

Mettiamo velocemente da parte l’orgoglio nazionale e il mai sopito senso di rivalità anti-tedesco, stile “Italia-Germania 4 a 3”, e invece ragioniamo su cosa possa significare per l’Italia che si avvia ad una tanto lunga quanto pericolosa campagna elettorale, e sul suo sistema politico tutto da ricostruire, la coraggiosa mossa di Draghi che ha portato la Bce non solo a imboccare la strada dell’intervento anti-spread, ma a scegliere quella hard degli acquisti illimitati di titoli dei paesi in difficoltà, pur a costo della esplicita contrarietà della Bundesbank.

Il tifo per “superMario” – mai tanto meritato come in questo caso – non deve infatti farci perdere di vista due cose fondamentali: le condizioni con cui la Bce interverrà sui mercati, che si preannunciano stringenti dal punto di vista degli obblighi che i governi si devono assumere per godere del beneficio degli interventi della banca centrale, tanto più se nel farlo sarà affiancata dal Fondo Monetario; la valenza solo congiunturale della mossa di Francoforte, che lascia ai governi la piena responsabilità della soluzione strutturale della crisi dell’eurosistema, anche se, avendo “comprato tempo”, li mette nella condizioni (se tutto funzionerà) di non decidere più sotto il continuo ricatto della pressione speculativa. Insomma, passiamo dalla “agenda Monti” alla “agenda Draghi”, e anche se sempre di “Mario” si tratta, siamo comunque di fronte ad un acuirsi del “vincolo europeo”, non a un suo affievolimento.

Finora il tema erano gli impegni che Monti si è preso in sede comunitaria per dare dell’Italia quell’immagine di serietà e affidabilità che il fallimentare epilogo della Seconda Repubblica – con il becero dilettantismo di Berlusconi ma anche con il populismo della sinistra movimentista e il conservatorismo di quella di governo – aveva del tutto sfigurato. Adesso è la questione centrale diventa la “richiesta di aiuto” e il relativo memorandum di impegni – inevitabilmente limitante l’autonomia decisionale del nostro governo – che saremmo chiamati a sottoscrivere. Vincolo che ci sarebbe non solo nell’ipotesi di una formale richiesta di sostegno – che in primis chiederà la Spagna – ma anche per evitare di lanciare l’help, come ha subito detto di voler fare Monti, proprio perché ora partner europei e mercati diventeranno ancora più esigenti nel vedere applicata la disciplina di bilancio e le riforme.

Tutto questo non può non avere ripercussioni sulla politica italiana e in particolare sulle elezioni. La deriva che aveva preso negli ultimi tempi – un po’ per alcuni errori del governo, molto per l’insipienza dei partiti esistenti e la fatica con cui tarda a manifestarsi il “partito che non c’è” – era quella di un progressivo abbassamento della consapevolezza (ammesso che ci fosse mai stata, forse era solo paura) della gravità e complessità della crisi dell’eurosistema e delle conseguenze del persistere della recessione nazionale. Cui ha fatto da pendant un pericoloso ritorno al clima del vecchio bipolarismo, che non potrà che peggiorare se fosse confermato il ritorno in campo di Berlusconi. Mentre il Paese di tutto ha bisogno meno che di una campagna elettorale all’insegna della contrapposizione – che, come al solito, non potrebbe che essere impostata sulla reciproca delegittimazione e tradursi in insopportabili scontri televisivi sull’aria fritta – e della rincorsa populistica a chi offre di più.

D’altra parte lo si è visto in questi mesi di governo Monti: dopo un’iniziale stordimento, cui ha corrisposto un appiattimento persino eccessivo e un totale scarico di responsabilità, via via i partiti hanno recuperato motivi di distinzione rispetto all’esecutivo (tutti o marginali o contraddittori) senza però essere capaci di costruire una piattaforma politico-programmatica che, pur restando nell’ambito degli impegni europei, fosse capace di far fare all’opera di risanamento un salto di qualità strutturale, nell’ambito della quale ricavare anche le risorse necessarie a supportare lo sviluppo. Il dibattito interno al Pd, tutto incentrato sulla rottamazione o meno dei vecchi dirigenti senza dedicare un momento alla palese contraddizione tra l’appoggio a Monti e le teorie economiche di Fassina, piuttosto che il deprimente clima di resa al ritorno del Cavaliere che si è creato nel Pdl – dove pure un timido tentativo di dire qualcosa di merito da parte di Alfano c’è stato con la proposta sul debito – la dicono lunga sula cifra del percorso che i due pilastri del bipolarismo hanno fatto in questo periodo.

Tuttavia, sarebbe ingeneroso dar loro tutta la colpa. Una parte di essa ce l’ha anche il governo, che sin dall’inizio si è chiamato fuori, non assumendosi quella parte di responsabilità – che pure gli sarebbe spettata avendo assunto come obiettivo quello di salvare l’Italia dal disastro – relativa al “dopo”, in assenza della quale anche la qualità del “durante” ne ha risentito non poco. Così come un po’ di colpa spetta alle forze centrali dello schieramento politico, quelle esistenti come l’Udc e quelle che tardano a organizzarsi e per di più mostrano inquietanti tendenze frazionistiche prima ancora di nascere, inquadrabili nel famoso “partito che non c’è”. L’evoluzione di quest’area – l’unica che può recuperare gli italiani indecisi, inclini a non votare o, peggio, a punire la “casta” dando il voto a Grillo – è ancora troppo lenta e rischia di determinarsi solo alla vigilia del voto, che sia la formula dell’Udc trasformata o quella di una grande aggregazione che accolga tutti i soggetti estranei allo schema bipolare, apparendo così più una lista elettorale che un partito di nuovo conio. Inoltre, c’è ancora molto lavoro da fare dal punto di vista programmatico, perché se è vero che è stato importante sostenere Monti e lo sarà ancora di più al cospetto del “lodo Draghi”, è altrettanto vero che c’è bisogno di un disegno riformatore ben più ampio di quello messo in campo fin qui.

Certo, se si tratta di discutere con chi vorrebbe tornare indietro, non si può che alzare barriere difensive del governo. Ma se si vuole andare avanti – e ora la Bce ce lo imporrà, in un modo o nell’altro – c’è bisogno di un progetto di medio termine di ben altra valenza. Le partite per la salvezza dell’euro e per quella dell’Italia non solo non sono terminate, ma sono appena iniziate e richiedono un salto di qualità che solo un nuovo soggetto che sia il naturale punto d’incrocio di moderati e riformisti, può dare. Se Pdl e Pd sceglieranno, come sembra, di andare al voto per vincere riemergendosi nel vecchio schema della contrapposizione bipolare e lasciando che la “grande coalizione” sia solo una residuale ipotesi (anche se probabile) nel caso che né centro-destra né centro-sinistra riescano a prevalere, ecco che lo spazio al centro, o ancor meglio “fuori” dagli schemi, diventa enorme. E sarebbe un peccato mortale lasciarlo a disposizione del rancore (giustificato) degli italiani o, peggio, a chi quel rancore intende biecamente sfruttarlo.

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