Circola con sempre maggiore insistenza, e suffragata da firme autorevoli, l’idea che si debba andare a votare in autunno. No, non si tratta delle voci di chi fin dall’inizio ha bollato il governo Monti prima un usurpatore e poi un affama-popolo (la Lega, Di Pietro, la sinistra dura e pura, la destra dentro e fuori il Pdl). Ci riferiamo a chi – da Scalfari a La Malfa passando per Casini (seppure con molta prudenza), ma anche il nostro Giacalone – ha posto la questione delle elezioni anticipate non come giubilazione di Monti ma come atto di tutela della stabilità politica prodotta dalla convergenza delle forze che dal 14 novembre scorso appoggiano il cosiddetto “governo tecnico”. Capiamo il ragionamento, ma non ci convince fino in fondo. Prima di affrontare il tema, però, facciamo un passo indietro, propedeutico a fare chiarezza.
Dunque, l’esecutivo Monti è stato salutato come benefica discontinuità rispetto non solo all’agonizzante governo Berlusconi, ma rispetto alla impotente alternanza prodotta dal nostro bipolarismo malato. Bene, questo era e rimane il suo merito maggiore. Esso è stato prodotto da un’emergenza, quella dello spread e della conseguente crisi dell’euro, contro la quale Monti si è mosso promettendo che i sacrifici che era costretto a chiedere agli italiani sarebbero serviti a sconfiggere quel mostro. Ora sappiamo che così non è stato.
Certo si può sostenere – e Società Aperta è stata tra questi – che senza le manovre di Monti staremmo peggio della Spagna, e che per un paese come il nostro, abituato a raccontarsi e farsi raccontare favole, portare a casa (senza colpo ferire, tra l’altro) la riforma delle pensioni e aver messo al fuoco la pentola delle liberalizzazioni e della trasformazione del mercato del lavoro e aver avviato una spending review seria, è comunque un gran risultato. Vero, in vent’anni di bipolarismo si è fatto molto meno che nei pochi mesi di Monti.
Questo non toglie, però, che il risultato che si voleva perseguire sia stato mancato. Un po’ perché non dipendeva (solo) da noi, e nel consesso europeo riconquistare il diritto a stare a tavola – a suo tempo perso con ignominia – è stata condizione necessaria (di cui va dato atto a Monti, anche se è dipesa più dall’autorevolezza del suo curriculum vitae che da ciò che ha concretamente fatto da premier) ma non sufficiente. E un po’ perché, sul piano interno, il governo ha commesso due errori esiziali, tra loro correlati. Intanto ha scelto la strada dell’azzeramento del deficit – perseguibile solo con inasprimenti fiscali e provvedimenti recessivi – e non della riduzione del debito.
E poi ha preteso di fare sviluppo solo con scelte normative, mentre per un paese che viene da un quindicennio (1992-2007) di crescita prima rallentata e poi zero – mentre il mondo cresceva come mai nella sua storia – e da un quinquennio (2008-2012) di recessione (se quest’anno sarà -2,4%, complessivamente avremo perso sette punti di pil e il 20% della produzione industriale), senza soldi non si va da nessuna parte. E le risorse, sia per abbattere il debito che per fare investimenti in conto capitale, non potevano (potrebbero) che venire da una manovra coraggiosa e senza precedenti sul patrimonio pubblico (da quotare in Borsa con l’ausilio di quello privato). La manovra shock, per capirci, che un gruppo di parlamentari capitanati da Mario Baldassarri aveva chiesto e che il governo ha però respinto, ribadendo la linea esposta dal ministro Grilli di un taglia-debito light da 15 miliardi l’anno.
Insomma, il bilancio di questi nove mesi di Monti ci impone di non tornare indietro – sia dal punto di vista politico, cioè alla improduttiva contrapposizione destra-sinistra, sia sotto il profilo dell’impegno nell’opera di risanamento dei conti pubblici – ma nello stesso tempo di cambiare strada, scegliendo la via di una maggiore fermezza nel porre ai partner europei (tedeschi, ma anche e soprattutto francesi) il tema dell’unità politica come unico antidoto alla speculazione dei mercati, e assumendo l’operazione “patrimonio-debito-sviluppo” come perno della politica economica nazionale.
Ci domandiamo: si può fare? Monti è disposto? E considerato che trattasi di piano – a noi piace definirlo liberal-keynesiano – che richiede necessariamente un contesto di “grande coalizione” per essere realizzato, sono disposte le forze politiche ad assumerlo come programma della prossima legislatura? Se sì, votare a novembre o a marzo è indifferente, basta attuarlo. E in quel caso sarà Monti a dover decidere se star dentro o fuori dal nuovo contesto. Se no, invece, il vero tema da affrontare è cosa accadrà dopo le elezioni, e più tempo ci sarà per chiarirlo, meglio sarà. Ma in questo secondo caso, rischia di accentuarsi il senso di impotenza e logoramento che il governo sta mostrando di avere e di subire. Perciò, sarebbe bene che le forze disposte a firmare quel patto di legislatura chiedano di entrare da subito nel governo Monti. Ponendo un vero e proprio out-out a chi recalcitra.
Il rifacimento della legge elettorale, di cui molto si parla e poco si pratica, è sì importante, come tutti dicono, ma è una variabile secondaria. Se ci sarà l’accordo sul programma della prossima legislatura e sul quadro di convergenza politica da realizzare per attuarlo, allora la legge potrà cambiare in senso funzionale a questo disegno. Se invece l’accordo non ci sarà, è a dir poco improbabile che si trovi l’intesa sulla riforma, e allora ci si rassegni ad andare a votare con la legge attuale. Pregando perché non accada quel che è successo in Grecia.