Quando arrivarono in quel continente che dopo qualche anno Giovanni Cabotto (1497) o Martin Waldseemüller (1507) chiameranno America, gli spagnoli, avendo compreso le incredibili ricchezze naturali di quelle antiche terre, decisero di avviare un intensivo e sanguinario sfruttamento di quel capitale vergine che sembrava stesse aspettando solo che qualcuno, “in cambio della grazia di Dio”, lo prendesse per il proprio beneficio. E i benefici in fondo non si fecero attendere: sono fin troppo noti gli effetti che ebbero, durante il Seicento, i preziosi metalli americani nei delicati (già allora) equilibri economici e politici dell’Europa.
Questi avvenimenti appena (e forse troppo sinteticamente) ricordati furono accompagnati da un processo di mitizzazione delle ricchezze americane. Come fa mirabilmente notare Antonello Gerbi, la tappa iniziale di tale processo fu il Perù che, per merito soprattutto della fama delle miniere del Potosì (le quali, è doveroso sottolineare, avevano una produzione di gran lunga inferiore ai meno celebri giacimenti messicani), divenne quasi immediatamente un luogo edenico dove – almeno nelle speranze dei pionieri, spesso improvvisati, che vi arrivarono – chiunque vi andasse poteva diventare facilmente ricco; del resto la procellosa e trepida biografia del povero e ignorante Francisco Pizarro smentiva efficacemente qualsiasi confutazione che metteva in discussione questo assioma.
Il mito del Perù fu tuttavia affiancato e poi addirittura superato da quello molto più longevo e diffuso di Eldorado. Eldorado, le cui prime attestazioni risalgono al 1535, è un vocabolo che ancor oggi richiama «un paese immaginario dell’America meridionale (in spagnolo “el dorado” è “il [paese] dorato”), che si credeva favolosamente ricco d’oro e di pietre preziose, ed esteso spesso per antonomasia a indicare genericamente un luogo d’abbondanza e di delizie» (“Eldorado” in “Vocabolario on line Treccani”). Quasi una sorta di antesignano Macondo, il mito di Eldorado nacque però in riferimento a un uomo e non, come invece sarà tramandato, a un luogo. Eldorado fu infatti il soprannome dato a un capo dei Chibcha (un popolo andino che, prima di essere sterminato dagli europei, visse per lungo tempo sull’altopiano di Bogotá in Colombia), il quale, seguito da tutti i suoi sudditi, si recava ogni anno sulle rive del laghetto di Guatavite dove, dopo essersi spalmato su tutto il corpo alcune alghe mucillaginose, si cospargeva di polvere d’oro (e per questa ragione definito “el dorado” da alcuni spagnoli che, nascosti, assistettero chissà in quale anno a questa funzione) e si immergeva nelle acque del lago, sacrificando, oltre a quella polvere ritenuta magica, cospicui tesori a una divinità simile a quella dei culti solari alessandrini.
Questa liturgia lacustre creò sull’uomo d’oro uno strano destino: «da un rito barbaro e sudicio sorgeva la più strepitosa delle leggende» al punto che «quel cacicco nudo e abbagliante diventava un simbolo riassuntivo delle ricchezze sognate e bramate, l’eroe eponimo d’un paese ancora da scoprire» (A. Gerbi, “Il mito del Perù”, p. 51). L’Eldorado divenne così per l’America un’efficace metafora sin más e, allo stesso tempo, un incredibile pungolo che permise ai suoi “ospiti” di conoscere in modo consapevole la sua geografia. Se le prime esplorazioni avvennero infatti quasi per caso, con l’affermazione del mito di Eldorado furono organizzate numerose spedizioni finalizzate alla ricerca di un paradiso che in realtà non esisteva; un paradiso spesso utilizzato anche dalle popolazioni locali che, rinviando a nuove, lontane e “sicure” mete eldoraniane, cercavano di allontanare dalle loro case i delusi avventurieri senza scrupoli che li tormentavano. Per molti aspetti, parafrasando Chandler, se la ferrovia e il telegrafo crearono gli Stati Uniti, l’Eldorado creò l’America latina.
Roberto Colonna