Topolino perde la parola

Un’indagine realizzata per “Topolino” qualche tempo fa ha rivelato che una buona parte dei suoi lettori non sia in grado di comprendere alcune parole presenti nei baloon di questo celebre settimanale a fumetti. La notizia in sé potrebbe anche non essere particolarmente clamorosa, se le parole in questione non fossero piuttosto comuni: si va da “erudito” a “nemesi”, da “incombenza” a “diafano”, passando per “turpiloquio” e “retrogrado”.
Il dato appare poi ancor più preoccupante se si considera che “Topolino” è letto da un pubblico, di giovani e meno giovani, composto da ceti economicamente agiati e di cultura medio alta. Per meglio comprendere la questione bisogna allora concentrarsi su quel fenomeno in continua espansione che è la mancanza di vocabolario, vale a dire l’utilizzo di un numero di parole limitato quando si parla o si scrive. Tale “mancanza” non è tuttavia il frutto di una disfunzione di natura biologica, ma il risultato di una scarsa propensione alla lettura.
Sebbene le statistiche degli ultimi anni segnino un aumento costante, per quanto minimo, del numero dei lettori italiani, il quadro torna a deprimersi non appena si confronta la situazione nostrana con quella degli altri paesi industrializzati. A questo proposito basti sapere che la definizione di “lettore forte” in Italia si riferisce a chi legge dodici o più libri in un anno, mentre in paesi come Germania, Stati Uniti d’America o Regno Unito a chi, nello stesso arco di tempo, legge almeno trentadue libri.
Questo sconfortante fenomeno – che tra l’altro origina tutta una serie di teorie accumunate dal voler denunciare il progressivo imbarbarimento della cultura italiana – trova spesso un facile capro espiatorio nelle nuove tecnologie e nelle mode che esse hanno indotto. La diffusione dei nuovi strumenti tecnologici, come il telefonino e i tablet, e delle nuove forme di comunicazione, facebook e twitter su tutti, sono infatti additati come i principali responsabili della scadente preparazione culturale delle nuove generazioni.
In realtà, essendo attività molto diverse, bisogna distinguere la propensione a scrivere da quella a leggere. Da questo punto di vista, per quanto in forme da “neolingua millenovecentottantaquattresca”, telefonini e social network hanno costretto, dopo decenni, gli adolescenti a scrivere di nuovo con continuità: oggi un adolescente medio scrive almeno cinquecento parole al giorno, una cosa impensabile per un ragazzo degli anni Settanta e Ottanta. E poi, come dimostra il delizioso “Favole al telefonino” di Fabian Negrin, non è detto che i risultati debbano essere solo quelle sigle incomprensibili tipo il famigerato TVTTB.
La scrittura è però, come già detto, qualcosa di molto differente dalla lettura. La lettura richiede tempo, totale dedizione e una particolare forma di attenzione; sviluppa inoltre forme di creatività che restano confinate essenzialmente all’interno della mente del singolo individuo. Tutti aspetti che non si coniugano con i ritmi di una società strutturata sulla velocità e sul profitto a ogni costo. Forse si tende a dimenticare che «ogni libro è un capitale che silenziosamente ci dorme accanto, ma che produce interessi incalcolabili». Un paese che non legge, è un paese povero (da tutti i punti di vista, anche da quello economico) poiché perde una parte importante della sua memoria, ossia la sua identità passata, e rischia di diventare subalterno non solo agli altri popoli ma soprattutto ai suoi istinti peggiori.

Roberto Colonna

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