DATE COURBET IN PASTO AI LAICISTI

La tradizione pittorica del XIX Secolo ha ancora qualche exemplum da regalare alle secche del discorso sull’attualità, come filtra, sui media, da ipostatizzate prese di posizione. Due rappresentazioni caricaturali del dialogo tra credenti e non credenti rischiano di occupare la scena, facendo sembrare lo sfondo della contesa un affollatissimo girone michelangiolesco: la rappresentazione che vuole la coscienza cattolica non già a difesa della vita (come pure apparterrebbe a gran parte dei codici culturali che possiamo rinvenire nella ossatura neo-testamentaria), ma quale unica realtà materiale in grado di difendere la vita, relegando ogni altra sensibilità per la vita al rango d’ancella o di rivale; l’altra, gemella ancor più brutta, più che speculare, che vede i laicisti felicemente convinti di esercitare il diritto all’autosufficienza anche contro le libertà religiose; dentro questi due estremi, invece, vi è un mondo, una ricchezza di elaborazioni (e di proposte giuridiche e politiche concrete, spesso fondate, spesso condivisibili), che i rilevatori ufficiali dello scandalismo di ogni giorno rischierebbero di mettere a tacere.
Tra gli argomenti che venivano invocati per inserire nella Costituzione Europea un diffuso riferimento alle radici giudaico-cristiane del nostro percorso di integrazione -il che pure non valeva ad esaurire le nostre ascendenze culturali e religiose, anzi, si avanzava l’idea che tutte le arti fiorite nel periodo rinascimentale (e anche subito prima e anche subito dopo) rappresentassero, pur con strumenti primitivi di una sbozzata società civile, una sensibilità circa il Sacro, che appartiene a uno specifico stile di vita e a una specifica condotta esistenziale. A controbilanciare questa pretesa di nettezza, potrebbe dirsi che l’ateo non smette di apprezzare Giotto o Bernini o Borromini, sol perché non condivide la tavola spirituale-confessionale che poteva connotare il concreto dell’esistenza quotidiana di quegli artisti: al contrario, la prospettiva ateistica può introdurre nuovi accenti e nuove chiavi di analisi che non necessariamente escludono la valutazione di quale fosse l’orientamento esistenziale del pittore, dello scultore e così via (Salvador Dalì, sempre in punta di provocazione, ma dotato di enormi capacità rielaborative, ha il suo periodo di studi nella Metafisica, come una intera stagione di lavori ispirati dai linguaggi delle civiltà mediterranee pre-coloniali: possiamo perciò negare che rimanga in Dalì un guizzo di giustizia, di ispirazione, interno a una educazione, a una simbologia e a un’assiologia cristiana, per quanto anticonformista?).
La verità… anzi, più modestamente, il punto di partenza dovrebbe essere che non ogni difesa delle ragioni degli ultimi, dei deboli e degli sfruttati, può esser rivendicata esclusivamente da una dottrina politica o da una pratica religiosa; e chi, nell’uno o nell’altro caso, continui a fare petizione di esclusività, o lo fa per interessi di parte o perché troppo poco conosce del mondo altrui.
Courbet iniziò dipingendo piccoli borghi di pescatori, paesaggi tranquilli, celebrazioni di quartiere, di vicolo, di paese. Si può dire che queste aspirazioni al pensiero libertario e alla coscienza solidale contenessero i semi per un superamento della “vulgata” idilliaca neoclassica, chiusa nell’eremo della propria bellezza, e della concitata reazione tardo-romantica. Eppure, il geniale autore de “L’Origine del Mondo”, che da comunardo non volle far carne da macello degli antichi musei parigini, sapeva tenere in mente il senso del giusto che era venuto da entrambe quelle lezioni: il suo realismo non era affatto cinico e il suo dipingere la sessualità femminile non poteva concludersi in una posa sacrilega. Semmai, riusciva ad avere a cuore la bellezza del piacere, della generazione e della vitalità che vengono dalla carne e dalle forme, guidato da un anelito di giustizia che lo conduceva a difender puttane, minatori e borghigiani che l’urbanizzazione spazzava ferocemente via.
Il Giusto che intende far riconoscere agli altri la propria Giustizia, pretendendo di divenire intoccabile, non è un pavone dannato, ma forse è più vicino di quanto creda al diventarlo; sembra scoppiargli a ridere in faccia, dall’altra parte della strada, il vivandiere gaudente, l’animo cupo da bisca, che ragiona su se stesso e cerca di dar nuova virtù alla propria vita: no, verosimilmente, non è salvo, ma vuole avvicinarsi ancora un poco a quella salvezza.

Domenico Bilotti

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