L’infamia di Tienanmen, 23 anni dopo

Di Carlo Di Stanislao

Lu Li Yujun, che 23 anni fa si parò davanti ai carri armati e divenne, in mondo-visione, il simbolo eroico del coraggio disarmato, ha oggi, 45 anni. Fu arrestato durante i moti dell’89, accusato di aver dato fuoco a un carro armato nel distretto di Chaoyang; condannato a morte nel ’91, con pena poi commutata in ergastolo e, infine, a 20 anni di carcere, per buona condotta.
Ma nonostante abbia trascorso oltre metà della sua esistenza in prigione, Li Yujun resterà comunque sotto il controllo delle autorità per altri otto anni: fino al 2020, dovendosi presentare una volta al mese in commissariato, senza mai uscire dalla capitale e senza mai rilasciare interviste o esprimere opinioni politiche, neanche su internet.
Nessuna clemenza, poi, per Lu Jiaping, uno dei dissidenti più anziani della Cina, che a 71 anni è costretto a rimanere in galera nonostante una condizione medica quasi disperata. Condannato nel maggio del 2011 a dieci anni di reclusione per aver “incitato alla sovversione contro il potere statale”, l’uomo ha subìto un arresto cardiaco in cella e si trova al momento in gravi condizioni di salute.
Se ne parla poco sulla stampa di tutto il mondo, ma 23 anni fa, Il 4 giugno del 1989, nello stesso anno della “chiusura del secolo breve” con la caduta del muro di Berlino, in Cina, a piazza Tien An Man, venne stroncata nel sangue dall'esercito, la manifestazione degli studenti che chiedevano libertà e democrazia. Ancora oggi nessuno sa quanti siano state le vittime della repressione di quel giorno e dei giorni a seguire, quanti ancora i dissidenti imprigionati nelle carceri del regime.
Sicchè la piazza il cui nome significa Porta della Pace Celeste e che, nella sua prime edificazione, durante i Mong fu detta Cheng Tienmen, ovvero “Porta dell'accettazione del mandato del cielo”, è ancora oggi un simbolo fra i più infamanti di cui si sia mai coperta in tempi recenti una nazione che si definisce democratica e civile.
Ed il silenzio sulla stampa ci dice che la cosa, oramai, sempre non interessi più nessuno.
Le autorità cinesi, tutt'oggi, si rifiutano di dire quante siano state le vittime e, di conseguenza, di identificarle. Il governo degli Usa ha chiesto a Pechino di rilasciare tutti coloro che sono ancora detenuti per i fatti del 1989. Secondo l' organizzazione umanitaria “Dui Hua” meno di una dozzina di attivisti sono ancora in prigione per aver avuto una parte attiva nel movimento per la democrazia del 1989. Ma il ministero degli esteri cinese si è dichiarato “fortemente infastidito” dall'appello rivolto dagli Usa proprio in queste ore.
Il governo cinese giustificò l'intervento perché considerava la manifestazione un “moto controrivoluzionario” ed oggi, forse non solo per caso, l'indice della Borsa di Shanghai è sceso di 64,89 punti: gli stessi numeri (in una nazione che crede nella numerologia e nei suoi “segreti messaggi”) che indicano appunto la data del massacro: 4/6/89.
E se i giornali (con poche eccezioni) ed i governi (tranne quello USA), tacciono, già da qualche giorno in tanti si sono mobilitati per ricordare l’evento, in chiave moderna, naturalmente, con un proliferare i tweet, su Sina Weibo, un sito simile a Twitter, accompagnati da “emoticon”, le faccine che esprimono lo stato d’animo di chi scrive.
Pechino, naturalmenrte, ha provveduto a disattivare tutti gli emoticon inerenti alla commemorazione: una candela che brucia fino a sciogliersi, un simbolo spesso utilizzato per sottolineare la tristezza relativa alla morte di persone.
Dopo la candela è arrivata una fiammella, utilizzata più che altro per promuovere le prossime olimpiadi a Londra, che brucia in continuazione.
Ma anche questa sparita nel giro di poche ore.
Inoltre, i caratteri cinesi per indicare la candela sono stati inseriti tra quelli sensibili, insieme ai numeri 23, 6, 4 e alla frase “per non dimenticare”, causando un blocco della connessione se inseriti come chiave nella ricerca di Weibo.
Da RaiNews24 si apprende, poi, che decine di attivisti e dissidenti sono stati messi agli arresti domiciliari, o costretti a lasciare Pechino e secondo il South China Morning Post di Hong Kong, le stesse autorità locali hanno definito le misure “da tempo di guerra”.
Tra le persone la cui libertà di movimento è stata limitata c'è Ding Zilin, l'insegnante in pensione che ha fondato il gruppo delle Madri di Tienanmen, che hanno già individuato 120 vittime del massacro.
Timidamente anche Taiwan a chiesto a Pechino di riconsiderare i fatti del 1989.”La Cina – ha detto il consiglio per gli affari interni di Taiwan in un suo comunicato – dovrebbe affrontare quell'evento storico e di conseguenza imparare una lezione da esso e spingere per delle riforme politiche”.
Noi tutto questo lo diciamo a gran voce ricordato al governo attuale il pasatto di una nazione che fu culla e testimone di una grande civiltà e sede di sviluppo e maturazione di modi di vivere, come il taoismo ed il buddismo, basate sul rispetto della diversità e sulla non violenza.

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