Il mondo è radicalmente cambiato, dal dopoguerra ad oggi, nei suoi processi economici e sociali, e la crescita economica, oggi, non è più necessariamente sinonimo di benessere collettivo. Questo poteva essere plausibile in un mondo in cui i processi economici erano ancora ancorati a logiche nazionali, le prassi commerciali si stavano internazionalizzando ma erano ancora fuori da logiche sovrannazionali e globalizzanti, le politiche nazionali erano decisive dello sviluppo delle società e la crescita economica coincideva con il sogno occidentale di una sempre crescente disponibilità di beni e servizi. Il mondo post-bellico andava ricostruendo il proprio tessuto produttivo, propedeutico ad un costante aumento della domanda interna e ad una maggiore disponibilità di beni e servizi, la quale coincideva con un maggior benessere collettivo. In quel mondo in forte fase espansiva, aveva un senso riporre la misurazione del nostro benessere in termini quantitativi. Il P.I.L sembrava lo strumento più adatto per misurarsi. Oggi non è più così.
La fase espansionistica non appartiene più al nostro mondo occidentale, ma vive e cresce in altri lidi come in Asia, in Sud America.
L’Europa e l’Italia subiscono oggi il problema dei debiti sovrani i quali, se elevati, non permettono politiche di espansione della spesa pubblica di rilievo, a meno che non si tocchino le corde della spesa per investimenti con l’auspicio in una ripresa della crescita economica, evitando così misure al ribasso per le collettività come tagli alla spesa, aumento della tassazione, vendita di bene pubblico oppure nuovo debito per rifinanziare quello in scadenza.
L’Europa e l’Italia sono vittime degli accordi internazionali sul libero scambio di beni e servizi i quali, non prevedendo la parità dei diritti del lavoro, hanno portato all’acutizzarsi dei processi di cinesizzazione in atto nei Paesi con diritti sul lavoro più evoluti e intensificato de facto i processi di delocalizzazione.
L’Europa e l’Italia, infine, vivono da tempo una contrazione sistemica della produttività ed una crisi dei modelli di welfare che proprio le fasi espansionistiche del dopo-guerra avevano contribuito a delineare ed a costruire.
E’ in virtù delle problematiche sin qui sinteticamente esposte che riteniamo il P.I.L un indicatore inadatto a misurare il grado di benessere, di sviluppo e di sostenibilità dei Paesi non più in fase fortemente espansiva.
Il punto di svolta rispetto allo status quo è capire come viviamo tenendo conto di tutti gli aspetti della vita, non solo di quello economico. La sinistra può, su questo punto, assumere un ruolo di cambiamento importante. Pensiamo, infatti, che il compito della sinistra possa essere quello di ripensare il nostro modus vivendi focalizzandosi su due aspetti importanti come 1) aumentare e migliorare il lavoro e, parallelamente, 2) migliorare la sua qualità contestualmente alla qualità dell’esistenza umana. Inoltre, dovrebbe essere compito di questa sinistra dare una sponda politica alle tante associazioni che da tempo si focalizzano su indicatori di qualità e non, come il P.I.L., di quantità.
Cominciamo, quindi, a ripensare al modo in cui la vita stessa viene misurata, scartando definitivamente la sola ricchezza prodotta annualmente ed adottando un metro che tenga conto dei diversi processi dell’esistenza, dai processi finanziari a quelli economico-produttivi, da quelli sociali a quelli umani. Il misurarsi oppure l’essere misurato con metri incompleti o, al peggio errati, porta a politiche di correzione altrettanto errate soprattutto se si considera il benessere complessivo di una società.
E’ lungo questo binario che si è preso atto della necessità di scartare il P.I.L. ed adottare l’indice Q.U.A.R.S.* (Indice di Qualità Regionale dello Sviluppo) come vero indicatore di benessere di un Paese.
E’ utile ribadire come Il P.I.L. non tenga conto di quei beni che non hanno un mercato e, quindi, richiedono una misura qualitativa come i costi indotti dall’inquinamento o dallo sfruttamento non sostenibile delle risorse, oppure la qualità della spesa pubblica. Il Q.U.A.R.S., al contrario del P.I.L., descrive un nuovo modello di sviluppo basato sull’equità, la sostenibilità e la solidarietà in quanto rappresenta e sintetizza l’indice di Sviluppo Umano, elaborato dall’ONU; l’indice di Qualità Sociale, composto da indicatori su sanità, salute, scuola e pari opportunità; l’indice di Ecosistema Urbano, ottenuto da Legambiente; l’indice di Dimensione della Spesa Pubblica, che valuta i livelli di spesa su istruzione, sanità, ambiente ed assistenza.
Misurarci secondo questi parametri del tutto alternativi rispetto al P.I.L. ci consentirebbe probabilmente di comprendere meglio come sia del tutto necessario incamminarci lungo la strada dell’abbattimento dell’industria inquinante, della riconversione del lavoro verso forme occupazionali ambientalmente compatibili, della valorizzazione delle energie da fonti rinnovabili, dell’incentivazione della piccola-media impresa per un economia più a misura d’uomo, dell’allontanamento da una mobilità a combustione interna, dell’ implementazione di una edilizia che tenga conto del giusto utilizzo di materie prime e dello smaltimento di rifiuti prodotti dall’edilizia stessa, evitando il rilascio di sostanze tossiche all’interno degli ambienti costruiti.
Modificare la metodologia di misurazione del benessere di un Paese è la strada maestra per un cambiamento di struttura che ci porti inesorabilmente ad un nuovo modello di società.
Uniamo la sinistra attorno a questa opportunità.
Sottoscrivi l’appello.
Manuel Santoro
Partito Socialista Italiano
Esecutivo PSI Guidonia-Tivoli
Direttivo nazionale della Lega dei Socialisti
* Campagna Sbilanciamoci