IL NUOVO CORSO

L’andamento in negativo delle borse internazionali ed in particolare di quell’italiana, ci ha fatto paragonare l’evoluzione sfavorevole della nostra economia, con tutto quello che si porta dietro, con ciò che è capitato nella grave depressione americana iniziata nel 1929 e rammenta, ancora oggi, come “Big Crash”. Dopo 83 anni, anche da noi si sta verificando una flessione economica che rispecchia, neppure tanto infedelmente, ciò che era capitato alla fine del secondo decennio del secolo scorso negli USA. Anche da noi, la crisi ha avuto implicazioni politiche di vecchia data. Sino alla fine del 1900, l’Italia procedeva verso uno sviluppo abbastanza coerente al ruolo che avrebbe assunto in seno all’Unione Europea. La produzione industriale era cresciuta, lo sviluppo di nuove forme di distribuzione (ipermercati) e le nuove tecnologie a basso costo, soprattutto importate dall’oriente, avevano favorito i consumi anche nei ceti medio/bassi. La fiducia nel futuro era palpabile. Con Berlusconi, tutto sembrava raggiungibile. Quasi raggiunto. Di fronte ad una realtà oggettivamente in netta ripresa, con un PIL in positivo, l’economia liberista ha avuto la meglio. Gli investimenti erano favoriti, i tassi sui mutui si erano attestati a livelli ragionevoli e l’occupazione, pur con qualche problema al sud, sembrava tenere. Insomma, lo Stato pareva nelle condizioni di dare maggior spazio agli interessi privati. In pratica alla speculazione a tutti i livelli. Verso il 2005, il quadro già era in preoccupante cambiamento. Anche se i risparmiatori continuavano ad investire in titolo di Stato, sicuri che la ripresa sarebbe stata rapida. BOT e CCT rendevano sempre meno, ma lo Stato s’indebitava senza che la crisi, già diffusa a livello mondiale, rientrasse su valori più sostenibili, almeno per il Bel Paese. Tra il 2006 ed il 2008, l’euforia speculativa spirava tragicamente, con conseguenti perdite irrecuperabili da parte dei piccoli risparmiatori che non erano stati nelle condizioni di diversificare la sistemazione dei loro risparmi. IL processo involutivo si è trascinato sino all’11 novembre scorso, quando, senza nessun segnale politico chiaro, il Cavaliere lasciava la partita e l’Italia in braghe di tela. Tutto è stato rapidissimo. L’elezione di un Senatore a vita e, poco dopo, l’incarico del Capo dello Stato a tentare la formazione di un esecutivo “tecnico”; lontano dai politici di qualsiasi tendenza. Così è stato; ma gli sviluppi del New Deal all’italiana sono stati ben diversi da quelli registrati, a tempo debito, negli Stati Uniti. Per noi, il “Nuovo Corso” è stato forzoso ed indifferenziato. Intanto, la riforma del nostro sistema fiscale si è rivelata penalizzante. Per vedere il “sereno”, i redditi lordi inferiori ai 6000 Euro l’anno avrebbero dovuto essere esenti da IRPEF. La percentualizzazione per quelli più alti avrebbe dovuto incrementare gli apici impositivi da Euro 50.000 in poi. Invece, non sempre chi più ha, più paga. E’ mancata la costituzione di un fondo d’emergenza, d’importo da quantificare, depositato fisicamente presso la Banca d’Italia. L’agevolazione all’esportazione di manufatti nazionali con particolari facilitazioni d’interscambio con quelle materie prime delle quali siamo carenti. Il varo di un calmiere sui prezzi dei prodotti di generale consumo (non solo alimentare) per frenare l’impennata dei prezzi il minuto e la mancanza d’adeguati utili per i componenti dell’inizio della filiera. Nessuno di questi provvedimenti è stato preso in considerazione. I primi cento giorni del Governo Monti sono stati traumatici per tutti e sono solo andati a buon fine i rincari che non garantiscono quella ripresa produttiva indispensabile per segnale il New Deal all’italiana. Invece, le premesse per un “nuovo corso” proprio non ci sono. Perché l’imprenditoria pubblica e privata, senza opportuni sostegni sociali e favorevoli fondi di liquidità, non è in grado di far fronte alle necessità occupazionali e produttive a livello competitivo. Peccato, il “New Deal” è stato solo un sogno che, però, si potrebbe trasformare in un incubo.

Giorgio Brignola

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