La globalizzazione economica nata all’inizio della dinastia Reagan-Thatcher e l’impero di George W. Bush, ha avuto come conseguenza nefasta quella di imporre l’ideologia liberista come “pensiero unico” nel mondo. Alimentata dai media, giorno dopo giorno, ha assunto sistematicamente il ruolo di altoparlante degli interessi lobbystici, di solito ben posizionati nella scala del potere economico nazionale e mondiale. Ma il rovinoso insuccesso dell’economia globale, al quale oggi stiamo assistendo, non può non accompagnarsi all’allontanamento del pensiero che ha idealizzato queste vicende. Questo mercato economico, caratterizzato da un atteggiamento politico e culturale contrario al dialogo e con una forte connotazione liberista, ha modificato radicalmente il rapporto tra democrazia e mercato. Nel passato il successo del capitalismo, in un ottica di confronto tra economia di mercato e istituzioni democratiche, aveva reso possibile la nascita di Stati democratici che controbilanciavano le diseguaglianze sociali prodotte dal mercato, ridistribuendo i frutti della crescita tra tutti i partecipanti al processo produttivo e, in misura minore, tra i cittadini che ne erano esclusi. Fu grazie alle teorie keynesiane, che suggerivano politiche macroeconomiche tese a stabilire regole di gestione e di controllo delle istituzioni bancarie e dei mercati finanziari, che il capitalismo degli anni trenta riuscì a superare la crisi. Ne sono un esempio il Glass Steagall Act del 1933 negli Stati Uniti e la legge bancaria del 1936 in Italia, entrambe indirizzate alla separazione tra banche commerciali, che erogavano credito a breve termine, e banche di investimento, impegnate nella fornitura di credito a lungo termine. Oggi le cose vanno diversamente e l’attuale globalizzazione dei mercati ha di fatto stabilito regole che hanno cancellato quelle leggi in osservanza di precetti liberisti e che hanno dettato le politiche fiscali verso sistemi di tassazione progressiva. Tutto questo ha creato un sistema di stimoli di mercato che alimenta la distruzione della civile convivenza. La globalizzazione, soprattutto quella finanziaria, ha pressoché cancellato le possibilità delle Nazioni di governare gli eccessi dei mercati, senza generare alcun sistema di governance sopranazionale tesa ad evitare o controbilanciare, l’effetto default del mercato finanziario mondiale che oggi sta provocando i maggiori danni nelle aziende produttive mondiale. Ha così prevalso la convinzione secondo la quale le istanze economiche debbano necessariamente prevalere sulle istanze politiche. L’approccio al sistema neoliberista ha comportato l’adozione di tre principi base: la mancanza di regole ben precise, le privatizzazioni e i tagli alla spesa pubblica, che insieme hanno portato alla situazione che stiamo sperimentando. La mancanza di norme all’interno del sistema mercato ha fatto si che le aziende sviluppassero i loro interessi laddove la manodopera a basso costo e l’assenza di contratti di lavoro regolari potesse garantire maggiori introiti e meno cavilli burocratici a favore dei lavoratori. L’apertura verso i mercati dell’est e l’importazione di prodotti dall’oriente ha innescato un meccanismo perverso, abbattendo l’occupazione nei Paesi con maggior tutele in ambito lavorativo e con rigidi protocolli di mercato. La teoria keynesiana, che vede nell’economia una scienza “morale”, riconosce la possibilità dell’intervento politico negli affari economici qualora il mercato non sia in grado di raggiungere gli obiettivi preposti, ma sottolinea anche i molteplici “fallimenti” che si verificano nel sistema mercato, qualora esista l’incapacità di produrre equilibri che riescano ad impiegare pienamente le risorse produttive presenti nell’economia stessa. Occorre a questo punto riportare i mercati sotto il controllo dei rispettivi Stati, attraverso un organo di verifica che non permetta speculazioni finanziarie a danno della popolazione. Oggi è evidente che la crisi finanziaria si è trasformata in una grave recessione. E’ inutile ridurre le tasse alle imprese se coloro che usufruiscono di tali riduzioni non investono nel Paese d’appartenenza, va evitata la trasmigrazione di aziende in altri Paesi, come va anche concertata una azione di tutela del lavoratore che permetta al datore di lavoro di non essere pressato da troppi vincoli contrattualistici. Il paradosso alla fine è che la complessa tutela del lavoratore stia producendo in realtà un aumento della disoccupazione, tutela che deve pur esserci ma che deve contenere norme di elasticità e contrattazione meno rigide. Per uscire dalla recessione, in ultimo, occorre stimolare direttamente la domanda nei mercati e vanno in questa direzione il sostegno dei redditi medi e bassi, gli incentivi alle imprese che investono e la razionalizzazione della spesa pubblica.
Antonino Di Giovanni