J’ACCUSE. MOI NON PLUS

Quando iniziava a porsi la vicenda di Cesare Battisti, mi sono pubblicamente esposto, sulla base di quattro osservazioni: 1)esigere che l’inefficienza dello stato italiano venisse colmata da pressioni sul governo brasiliano era una scorciatoia, rispetto a procedure normativamente previste, nel concreto esperibili ed esperite; 2)la relazione del ministro Genro meritava particolare attenzione, sia sul piano stilistico e teorico (la rilettura, per quanto partigiana, di classici del pensiero politico come Habermas, Rawls e Bobbio) che su quello contenutistico e sostanziale (la denuncia del cd. “eccesso di azione penale” nel periodo delle leggi emergenziali); 3)non erano da apprezzare quelle personalità della cultura italiana che, inizialmente firmatarie di appelli a favore dell’ex militante dei PAC, intuito come ciò potesse divenire fonte di disdoro e discredito, cominciavo a sfilarsi, da garantisti (più garantisti del garantista) a forcaioli (più forcaioli del forcaiolo); 4)ritenevo ingiusto che la valutazione critica complessiva del fenomeno dell’eversione italiana potesse limitarsi ad una così ossessiva analisi di un caso singolo, potrebbe dirsi in termini di politica giudiziaria: nemmeno il più eclatante!, così unanimemente riletto e commentato, pur se la materiale analisi dei vari provvedimenti adottati spingeva a riflessioni, come è dovuto in questi casi, più prudenti. Aggiungevo pure un’altra considerazione: invocare il sacrosanto dolore delle vittime come ulteriore argomento repressivo mi sembrava operazione logicamente ed eticamente non del tutto “corretta”, posto che i familiari di ogni vittima devono misurarsi con un vuoto enormemente più gravoso del “pieno” che può giungere dalla punizione dei colpevoli.
Battisti si era, probabilmente, meritato questo approccio, dal momento che per un decennio, e oltre, poco s’era detto e fatto sulla sua figura, poco aveva detto e fatto lui stesso, per altro verso dedicandosi alla scrittura (con qualche ottimo riscontro commerciale e qualche buon risultato editoriale).
Le ultime uscite, però, vanno in una direzione, se si vuole, a metà tra provocazione ed esibizione, dal Carnevale di Rio, con promessa di processione tra i carri, alle interviste a trecentosessanta gradi, con talune esternazioni, certo legittime, ma almeno in parte forzose, contraddittorie, incongrue. Delle ragioni che mi spinsero non ne rinnego alcuna: anzi, ritengo che quelle argomentazioni possano valere nei confronti di qualunque personaggio dell’esperienza eversiva, al di là del presupposto teorico della sua militanza; ho registrato, pure, che partire da quelle riflessioni era un modo per poter dialogare in serenità (l’unico) con chi aveva idee diverse dalle mie e proveniva dagli ambiti politici più disparati (dalla Destra liberale ai social-democratici, passando per esperienze di movimento, ecc.). Quel che spiace, e spiace anche alla qualità del dibattito sugli anni Settanta e Ottanta, è che lo stesso protagonista della vicenda stia facendo davvero poco per riportare il giusto equilibrio su quei fatti (magari, persino inconsapevolmente, gettando ulteriore, troppa!, carne al fuoco).

Domenico Bilotti

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