Cefalonia: Pampaloni e i caduti attendono smentita

di Gianfranco Ianni

Scrivo per smaltire la solita grande abbuffata di balle sui fatti di Cefalonia. Ne è ancora pieno il web. Di vecchi e nuovi post. Giaculatorie con cui si sèguita a celebrare Amos Pampaloni, uno de-gli ufficiali ribelli della divisione Acqui, fiore all’occhiello della storiografia resistenziale su Cefa-lonia, icona della Firenze rossa. Eppure, ero convinto che certa impudenza fosse finalmente ces-sata, dopo la pubblicazione del mio libraccio Rapporto Cefalonia (Solfanelli, 2011). Dove do conto della sconfessione della sua condotta che Pampaloni mi affidò nell’intervista del 17 ottobre 2005 nella sua dimora fiorentina. Facendo umilmente ammenda della decisione di sparare d’iniziativa sulle due motozattere tedesche che trasportavano rifornimenti per il distaccamento di Argostóli, non truppa e carri armati come troppo disinvoltamente aveva riferito dopo la guerra. Di non aver provveduto per tempo a stroncare sul nascere la rivolta della sua batteria. E anzi incoraggiando-la. Di aver dato vita al movimento antitedesco con altri campioni dell’artiglieria e della marina, che dopo le rappresaglie sarebbero divenuti i più zelanti collaboratori degli killer dei propri com-pagni. Di non aver messo agli arresti un suo decerebrato sottoposto che aveva preso a moschetta-te il tenente colonnello Carlo Matteo Deodato, comandante di gruppo, per il sol torto d’aver valu-tato come inattuabile un confronto armato con l’alleato. Pampaloni, peraltro, mi raccontò che do-po l’armistizio l’unico desiderio dei soldati era di tornarsene a casa, non certo quello di rischiar sul serio i fondelli attaccando i tedeschi per ragioni «etiche» e «politiche». E fu Pampaloni a dirmi dei tentativi di Apollonio di convincerlo a valorizzarne la sedizione per spianargli la strada a una fulgida carriera militare. O in subordine, politica. Nelle file di Dc o Pci, non avrebbe fatto davve-ro alcuna differenza: un anticipatore ante litteram del compromesso storico. Meno male che gli è andata bene quella militare. Diversamente, avremmo avuto con Berlinguer un altro apostolo del-l’attuazione dei cosiddetti governi di solidarietà nazionale. E fu Pampaloni, infine, a riconoscere che il deliberato attacco alle motozattere contribuì in maniera determinante ad acuire nei tede-schi la risoluzione a porre in atto l’ignobile rappresaglia contro i soli ufficiali della Acqui.
Altro argomento che campeggia sul web, il cosiddetto referendum indetto da Gandin. Che avreb-be determinato i soldati a scegliere la lotta al tedesco rifiutando la resa. Gandin, in realtà, aven-do ricevuto dal comando supremo italiano l’ordine di resistere all’ingiunzione tedesca di resa, per misurare il morale combattivo della truppa si era guardato bene dal comunicarglielo, preferendo sentirne il polso con l’espediente del test. Diversamente ne avrebbe ottenuto l’obbedienza, non la reale volontà di battersi. Per altro verso, non tutta la divisione fu testata. E dei reparti che lo fu-rono, la maggior parte si disse contraria al combattimento. Notizia ribadita dal racconto che il 18 ottobre 2005 mi fece in Roma il fante Olinto Perosa del 317°, riferendo con dovizia di particolari dello svolgimento che il test ebbe nel suo reparto: nessuno si disse disposto a impugnar le armi.
Un altro argomento m’induce a una ferrea dieta da balle storiografiche, attraverso l’esercizio del-la scrittura di cui indegnamente faccio uso: le cifre relative ai caduti per mano tedesca. Dal 2006, Massimo Filippini le ha indicate in meno di duemila. E documenti alla mano, mica a chiacchiere. Eppure, a ogni commemorazione ufficiale, Destra e Sinistra se la suonano a ciglio umido riferen-do di circa diecimila morti. Ma so’ proprio de coccio, allora? Ce sono, o ce fanno? Oddio le lacrime versate su ogni stele che ricorda i caduti della Acqui! E non ritenendo che siano de coccio, né che ce sono, dovrò di conseguenza presumere che ce fanno. Il perché è presto detto: ammettessero il dato oggettivo dei duemila morti riferito da Filippini, verrebbe ineluttabilmente a cadere l’assun-to che un’intera divisione avrebbe consapevolmente deciso di impugnare le armi contro il tedesco e d’immolarsi sull’altare dell’onore. Con l’evidente necessità, da parte degli assertori, di chiedere quantomeno scusa ai molti lettori, spettatori e telespettatori che hanno mandato a memoria una balla del genere.
Infine, non posso fare a meno di riferire che i miei studi approfonditi sui fatti di Cefalonia hanno portato al risultato che su 11.525 uomini solo due o trecento si spesero nella battaglia fino al sa-crificio. E furono per la maggior parte ufficiali. Il resto della divisione si arrese pressoché imme-diatamente. E dunque, continuare a parlare di resistenza della Acqui par essere un vuoto eserci-zio retorico, che nella sua vaghezza romantica non rende giustizia alla storia.
Chi apprende della folgorazione di Pampaloni sulla via di Firenze, come delle cifre dei caduti per mano tedesca, della reale portata del test-espediente di Gandin e della resa della Acqui, non ha che due sole possibilità: prenderne atto o contraddirle con dati verificabili. Chi capricciosamente le nega per seguitare a sostenere tesi inverosimili per interessi di bottega, invece, non ha alcuna autorevolezza per pretendere di essere ascoltato. Perciò, converrebbe che i capricci li andasse a fare in un altro posto.

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