Lo stupro è, probabilmente, uno dei crimini più difficili da accettare per la concezione morale comune, che anzi lo rigetta e stigmatizza come poche, altre ipotesi delittuose (forse solo il sequestro di persona e la tortura ci suscitano lo stesso sgomento). È complicato, se non impossibile, immaginare, perciò, come si possa accusare indistintamente qualcuno, magari sulla base del suo gruppo etnico, di un’azione tanto brutale. In parte avrà giocato la paura di aprirsi serenamente, in parte la nostra cultura nazionale, che ancora circonda la verginità femminile di un interesse morboso e reazionario. Si capisce ancor di meno come mai una comunità locale, notiziata di un fatto del genere, che esige giustizia più che la vendetta di gruppo, si sia aizzata, altrettanto indistintamente, contro gli abitanti di un campo rom, con un assalto fisico e una aggressività a tutto tondo, al di fuori di ogni nostra immagine della convivenza cittadina. Esponenti di tutti i partiti, compresi quelli del centrosinistra, hanno fatto a gara a partecipare nelle prime fila al corteo contro i rom. Ciò sembra persino più grave, perché se la violenza di massa diventa il frutto di una esasperazione, spesso indotta dalle manipolazioni mediatiche, la strumentalizzazione politica e di partito, in nome di valori vendicativi e giustizialisti, è inaccettabile. Il nostro giudizio non sarebbe di molto cambiato se si fosse, invece, scoperto che violenza fisica c’era stata e compiuta da qualcuno di quel gruppo: avremmo, all’opposto, richiesto che venisse fatta un’indagine e stabilita una responsabilità personale, al di là di ogni ragionevole dubbio. Questo è lo scopo della politica legislativa in materia penale: non la ghettizzazione delle minoranze, non la loro persecuzione, non l’ammissibilità di una giustizia fai da te, frutto di odio, di rappresaglia e di incitamento violento da parte di chi governa la cosa pubblica.
La vicenda ha offerto a più di qualche editorialista lo spunto per riparlare delle condizioni dei campi rom nel nostro Paese, sostenendo, tra le altre cose, che essi sono ricettacoli potenziali di criminalità. Ebbene, in un periodo di grave crisi civile (prima ancora che economica), i reati contro il patrimonio, dal danneggiamento al furto, tendono ad aumentare e la forza dell’aumento è tale da smentire le pretese (e quanto utili, poi?) classifiche tra comunità stanziali e comunità migranti. Molto spesso le maxi-retate, i maxi-blitz, hanno portato alla scoperta di armi da fuoco detenute illegalmente, di piccole riserve di sostanze stupefacenti di vario tipo, persino di casi di induzione alla prostituzione. Il problema, però, è che la situazione non cambierebbe radicalmente passando al setaccio, o radendo al suolo!, un intero quartiere universitario o suburbano. Schedature di massa e perquisizioni collettive, di dubbia legittimità sullo stesso piano giuridico, non portano grandi effetti, nemmeno nel breve periodo, perché, semmai, predeterminano le condizioni di rifornimento di nuovi approvvigionamenti. Che dire poi del messaggio che è venuto dalle stanze del Potere, dove si son viste pratiche persino più perverse della stessa prostituzione e forme di festeggiamento privato così grette e volgari da far impallidire i Trimalcioni di ogni epoca e grado? Nel limite del non ledere gli altri, certe scelte di vita è giusto che rimangano competenza di chi le pone in essere. Non è col moralismo che si combatte il crimine, esattamente come non è con l’odio razziale che si riducono i danni della mancata integrazione, in tutta Europa!, tra comunità stanziali e comunità nomadi o migranti. Nelle pieghe e nelle piaghe di un sistema che riduce progressivamente gli spazi di cooperazione, non c’è da stupirsi se la propaganda xenofoba trova nuovi proseliti, anche fuori dagli scranni parlamentari. Non c’è da stupirsi se chi difende la legalità, fa a gara a strapparla dalle mani dei propri vicini per percuoterli. L’assalto al campo rom di Torino resta una grave ferita. Per chi si sente, nel proprio nucleo, così indifeso da dover dar ad altri colpe che non esistono; per chi ha pensato di assaltare per difendere e “risarcire”; per chi ha capito che dove c’è insicurezza, c’è spazio di visibilità e potere. Per noi tutti, spettatori: se ci sentiamo a distanza di sicurezza, siamo poco meno che complici.
Domenico Bilotti