E’ stato pubblicato di recente dalle Edizioni D’Abruzzo/Menabò il volume “Una notte in Abruzzo e altri racconti” dello scrittore svizzero Heinrich Federer (Brienz, 1866 – Zurigo, 1928). Tradotto da Valentina Donatelli, vede la luce a dieci anni dalla tragica scomparsa di questa giovane e brillante studiosa di singolarità abruzzesi, per ricordarla. Il volume reca una bella introduzione di Antonio Bini, infaticabile ricercatore di preziosità artistiche e culturali dell’Abruzzo, sulle tracce dei viaggiatori del Grand Tour, tra i quali Federer può annoverarsi, nel descrivere le suggestioni e il mistero d’una regione che molto ha intrigato tanti esponenti della cultura europea. Dal libro, fresco di stampa, con il consenso dell’editore, si sceglie questa narrazione dell’Aquila e della sua gente, così come apparvero allo scrittore quando vi arrivò.
Goffredo Palmerini
L’AQUILA
di Heinrich Federer
Tratto da “Una notte in Abruzzo e altri racconti”, di Heinrich Federer, introduzione di Antonio Bini – Traduzione di Valentina Donatelli, ed. D’Abruzzo/Menabò, 2011.
Dopo alcuni giorni di peregrinazioni, mi imbattei nuovamente nella ferrovia: era una sorta di ferrovia di montagna che si inerpicava fino a questa antica città medievale all’ombra dei monti, quasi al centro del maestoso Appennino italiano. Da queste parti l’imponente massiccio del Gran Sasso ritarda di un’ora lo spuntare del sole del mattino. Non è difficile da qui raggiungere le cime del colosso. Si costeggia il fiume Aterno per circa tre ore in direzione dei monti e si risalgono le sue anse ripide per un’altra ora, ritrovandosi davanti al Gran Sasso che si staglia sullo sfondo del cielo come un bastione quasi inespugnabile, simile ad una città canuta gravemente danneggiata dalle cannonate e lacerata dalle sue brecce.
Tutto è talmente freddo e sterile lassù, come se su quelle infinite cime l’eternità abbia steso le sue ali ghiacciate. Eppure tra le mille pieghe della montagna uno splendido bosco si insinua fin nel profondo del suo cuore. Uno accanto all’altro si susseguono boschetti di castagni, ciliegi selvatici, cipressi, querce, faggi e alloro selvatico. Il loro fogliame scuro e aromatico si acquatta e si addossa così caparbiamente al corpo del monte che pare questi ne rida e lo ringrazi di tanto attaccamento, restando comunque il compagno freddo e antico di sempre: le carezze e gli odori di quella variegata unione non offuscano nemmeno un istante il suo spirito romano che come una pietra senza cuore, con impassibile fronte severa guarda verso il basso con uno sguardo di biasimo privo di alcunché di pittoresco o di poetico.
Anche il monte Velino, a sud della città, si erge fino a duemilacinquecento metri di altezza ed è sontuosamente cinto di fronde, ma appare docile al confronto con il suo vicino. Lassù vivono solo lepri e volpi, mentre sul Gran Sasso brontola ancor di più un orso e quasi ogni autunno i pastori uccidono qualche lupo con i loro bastoni. Orgoglioso come un’aquila e curioso come un avvoltoio, dal mare adriatico giunge un uccello a sorvolare gli abissi del monte. Mi sono disteso sulla schiena e ho osservato per ore la sua impareggiabile passeggiata nell’ebbro blu dolciastro in cui disegnava una geometria celestiale di cerchi e di ellissi.
L’uccello non vola mai sul Velino: quei duemilacinquecento metri sono misure adatte alle taccole, non certo a lui. Dal canto mio, invece, non mi vergogno di aver scalato il Velino, piuttosto che il Gran Sasso. Il percorso richiede molto tempo ed è ugualmente faticoso, ma che vista di gode dalla cima più alta ! Di fronte al monte incombe inquietante l’ampio massiccio del Gran Sasso, con le sue sembianze più arcigne. A nord, sotto il tetto del cielo, si inclinano come ricurve spalle di vecchia le montagne sibilline. Le loro cime sono perennemente coperte di veli e si direbbe che dietro quelle espressioni impenetrabili si nascondano delle osservatrici impietrite, nel cui seno passato e presente si sono fermate come un orologio rotto. A sud est si inarca, come un gigantesco muro nel blu, il fulgore bronzeo della Maiella che pure raggiunge quasi tremila metri. Fino all’Etna, sull’isola di Sicilia, non esiste altro essere che arriva a toccare la stessa altezza.
E la pianura ! La vista si confonde dinanzi a centinaia e centinaia di valli che si distendono tra i picchi degli Appennini come pieghe di vesti, aprendosi sotto di loro e sfociando in altre valli fino a stendersi completamente nella pianura. E’ un sogno questo o solo l’illusione aerea ? Certo è che laggiù, sia ad est sia ad ovest, si scorge i luccichio blu e infinito dell’oceano che lambisce l’Italia. Il sole è caldo, l’aria è fresca; qua e là da un buco d’ombra ti osserva un mucchio sporco di neve ghiacciata. Non si vedono città, né paesi. Io e la montagna e la disabitata vastità del mondo, siamo noi tre soli. Anzi no: lì a fianco c’è un quarto essere che mastica argilla e cardi mentre ti guarda con occhi grandi, leali e sobri. E’ un mulo, il docile servo italiano. Nel suo umido sguardo color ruggine si rispecchia questo ignoto mondo originario, incredibilmente vasto e dolce-amaro; piccolo quanto la sua stessa grandezza; animato quanto il suo silenzio.
Il Säntis, il granito oppure il marmo del Gottardo saranno più imponenti, forti e multicolori; la vista della neve perenne sulle cime d’alta montagna del Walliser sarà anche splendida; sulle amate cime verdeggianti dell’Unterwalden prealpino ci si sentirà forse più tristi e sinceri; niente può essere paragonato alla infinità di rotondità di questo spettacolo di cime, con i loro terrificanti contrasti, dove il deserto di roccia quasi ti pietrifica e l’incommensurabile lontananza dell’aria, d’acqua e di terra paradisiaca ti beatifica il cuore. La morte impietrita che c’è lì intorno e la magia della vita che comincia là in fondo sono ugualmente fisse. Le loro brezze non possono penetrarti dentro, perché sono come dipinte e te ne resti immobile e rapito lì davanti, quasi ammaliato, respirando a fatica per la dolcezza e la gravità di una simile rappresentazione della vita. Questa è la vista che si gode dal Velino, dal Vettore, dalla Maiella; questo è quanto di più magico e terrificante vi è in loro. Non vi è niente che possa superarli nel paesaggio alpino.
L’Aquila si trova in questo regno montano, a settecentocinquanta metri d’altezza, che per l’Italia valgono quanto i millequattrocento metri in Svizzera. L’Aquila potrebbe essere il Grindenwald o l’Engelberg italiano. Si sarebbe portati a credere che questa città di montagna viva chiusa e tranquilla. In effetti di qui passano solo pochi turisti, anche se almeno le persone del posto sono solite inerpicarsi verso la frescura estiva dei boschi. Una volta invece si usava passare per l’Aquila e per Sulmona e per andare a Roma oppure a Napoli partendo da Ferrara, da Rimini o dalla marca di Ancona. Il faticoso viaggio toccava terre che non erano infestate dalle febbri. Lungo la strada il viandante trovava ombra, aria fresca e piccoli ricoveri, e l’unico inconveniente spiacevole poteva essere rappresentato da una banda di briganti che all’improvviso saltava fuori dalla solitaria natura selvaggia per alleggerire i viaggiatori dei loro beni materiali.
Nessuna città italiana è troppo piccola da non indurre un grande artista a imprimere nei dintorni il proprio tocco. Tuttavia, pur trovandosi lassù tra quelle montagne una collezione di quadri, il volto di questo elevato paesaggio rapisce soprattutto per le assolate facciate dei palazzi nelle sue viuzze strette. La facciata della chiesa francescana mostra una forte consapevolezza di sé. La cattedrale di San Massimo al confronto appare più malinconica e ostinata. Le altre case del signore, per non parlare del castello spagnolo, hanno l’aspetto di tante fortezze. A ogni passo incontri qualcosa di particolare. Questa città era troppo lontana da Firenze, Roma o Perugia, per poter costituire un modello da imitare. Forse ricorda Napoli, ma anche questo paragone è un po’ azzardato.
L’Aquila ha vissuto sempre della sua stessa anima: rude nel volto, ossuta nella corporatura, leggera e delicata nel passo, tenace nelle parole, arguta, tenera e poetica nello sguardo, ostinata nel cuore; è così che vedo questa singolare città fondata dall’altrettanto singolare Federico II di Svevia. Sulla sua storia si potrebbe scrivere un libro, e un secondo ancora sulla sua vivida grazia interiore. Oltremodo vasto diverrebbe il capitolo che, più che delle dimore e delle chiese, delle locande e delle facciate nei vicoli, parlasse del suo impareggiabile talento nell’intessere la sua attività primaria di pizzi e di ricami. Vengono in mente le donne dell’Appenzell che lavorano al tombolo davanti casa e le ricamatrici di pizzo di San Gallo che armeggiano in cantina coi loro attrezzi esili come dita. Poi all’improvviso si incontra qualcosa di completamente diverso, più vivo, frivolo e ugualmente artistico. I violetti profumano di zafferano; il succo giallo del crocus si sente in qualsiasi pietanza a base di verdura,
Qui a L’Aquila si coltiva questa squisita pianta dai fiori gialli e dall’insolito e seducente profumo asiatico. I fiori sbocciano, ma le foglie germogliano solo la primavera successiva. Il lungo pistillo viene strappato dal calice e messo diligentemente a seccare. Dai pistilli si produce lo zafferano, forte colorante ed eccitante. Il racconto è molto faticoso: da 60.000 pistilli si estrae circa mezzo chilo di zafferano puro. E la mano stanca tira e tira ! Un chilo di zafferano costa ottanta lire dai commercianti di spezie e ancor di più sui mercati più piccoli. Sono molti qui quelli che masticano e succhiano lo zafferano. Ho provato anch’io. Eccita, calma i nervi, rende allegri e accelera il battito cardiaco, migliora l’appetito e normalizza il respiro, ma la sua magia è pericolosa: ti rende schiavo e all’improvviso ti trasforma in un fumatore d’oppio costante e raffinato.
Solo alcuni grandi signori ricavano grossi guadagni da questa erba del diavolo. La gente del popolo ne ricava solo la fatica e un esiguo compenso quotidiano. La maggior parte degli aquilani tira avanti tra grandi stenti. Anno dopo anno enorme masse di persona emigrano dalla città e dalla valle verso l’Argentina. Da queste parti i boschi sono sontuosi e i monti imponenti, ma non danno alcun pane. Di tutta la poeticità delle città italiane, soprattutto le più piccole, qui il visitatore coglie la sensazione dolorosa che centinaia, migliaia di persone non valgono e non possiedono niente, perché è solo una persona su mille, nata casualmente in una famiglia agiata, a possedere tutto: i soldi, un nome importante, l’amministrazione della città e il flagello dell’economia del libero arbitrio. Cosa non sarebbe in grado di fare il forte e geniale popolo italico se non dovesse sempre strisciare umilmente dietro un nugolo di nobili, uno dietro l’altro come tante nullità ? In passato l’intera vallata ubbidiva al nobile Aldo Franzoni o al duca Orlando da Forni. Adesso deve sottostare al denaro del sig. Bolla, alla fabbrica del sig. Prati o ai mezzadri del potente proprietario terriero Leonte.
La capacità individuale, l’iniziativa del popolo, la forza e il valore del lavoro indipendente sono concetti che qui si trovano ancora allo stato embrionale. La gente non ha alcun potere economico e non otterrà mai niente se non si impossesserà dei mezzi comuni e indipendenti, come fanno nel settentrione lombardo. Nell’altopiano d’Abruzzo il capitale e la proprietà terriera ostacolano prepotentemente la strada verso la libertà economica, proprio come il Gran Sasso e la Maiella ostruiscono la valle. La scienza dell’ingegneria però è riuscita a domare entrambi i giganti creando ampi passaggi sui loro dorsi. Ma se gli uomini, che qui languiscono così miseramente, organizzassero in decine di migliaia le loro mani operose ripagate con rozze elemosine, le loro schiene piegate fino a schiantarsi e le loro anime così umiliate e tuttavia meritevoli di elevazione, se tutti insieme si addestrassero e si gettassero nello scontro, allora vorrei vedere quali porte non si spalancherebbero per l’avanzamento sociale di questo popolo nel nome del Signore e quali teste nobili non si inchinerebbero dinanzi a esso!
Questa piccola città di montagna ha nondimeno un carattere marcatamente signorile. In nessun altro posto, neppure sui monti Sabini, ho visto altrettanti uomini affamati mangiare rifiuti comuni nei vicoli, afferrare l’elemosina altrettanto avidamente e osservare con la massima riverenza una monetina d’argento. Davanti all’oro si inchinerebbero come di fronte al sacramento. E non ho mai visto prima d’ora una tavola d’operai altrettanto povera. Le case della maggior parte di loro hanno le stesse loro scarne facciate. Ci sono invece palazzi che si vantano come oro antico, e gruppi di industriali e villeggianti che vivono come principi. La differenza tra i ricchi e i poveri che ho visto qui mi provoca più dolore che altrove, perché questa gente di montagna è abile, onesta e gentile. Vorrei pregare il re di dare a ciascuno di loro una casetta salubre, un giardinetto, una montanina e un lavoro per bene.
I consiglieri di Monte Ciborio parlano di cose intelligenti e covano le grosse uova dell’espansione coloniale nel mondo. Ma, per una volta, non potrebbero assicurare la loro protezione alle colonie interne per covare un sostanzioso ovetto nazionale? Col favore del destino, una sera ho potuto prendere parte alla scena del pagamento degli operai e delle operaie. Avrei preferito non assistervi ! Ancor oggi mi perseguita come un brutto ceffo l’umiliante sobrietà con cui questa gentucola smagrita riceveva il miserrimo compenso per una interminabile settimana di lavoro, e il modo compiaciuto con cui tale compenso gli veniva buttato in faccia e ad ogni lercia banconota gli veniva detto: “Con quale insolenza osate chiedere tanto, mendicanti !”. Avrei voluto sollevare un putiferio. “Tra questi contadini e paesani possa un giorno nascere un apostolo sociale”, gridai, “che sia forte come Pietro e buono come Giovanni. Ma dovrebbe essere un laico, uno che nell’impulso dell’attimo minacci, tuoni e colpisca; uno con la mente pratica, la lingua impetuosa, le mani benedette e il cuore tenace come oro; uno che tra tutti i teorici della redenzione ne sia l’effettivo fautore, tra i milioni di politici sia un esperto apolitico e un integerrimo sostenitore del popolo! Un Gracco cristiano!”.
Ma ogni volta che rivedevo la mansuetudine con cui quella gente afferrava le banconote, i mille grazie e il chinarsi delle teste di quei mercenari, non potevo fare ameno di confessare a me stesso che un simile apostolo, anche se fosse stato più puro della neve e più zelante del fuoco vivo, non avrebbe mai raggiunto nulla con un tale popolo. La cera può trasformarsi forse in metallo ? Può fare di questi conigli dei leoni ? No: qui gettarsi nella mischia non ispira alcun tipo di devozione; qui può ispirarla solo un eremita in fuga da questo mondo enigmatico, dalla sua miseria riconoscente e la sua abbondanza superba, da un mondo con impulsi di cane e di animale da preda; un eremita che si rifugi in una qualche cavità introvabile e si sfami solo con pura acqua di montagna e frutta selvatica.
Agitando le braccia e con la bocca umida dalle grida, dissi queste parole furiose al vecchio custode del palazzo Dragonetti con cui mi intrattenevo spesso la sera perché lui mi parlava di questa terra e della sua storia, mi prestava libri rari e mi dischiudeva antichi saloni e vecchi mobili. Mi sembrava un ometto saggio venuto da chissà dove, che non veniva mai minimamente sfiorato dal brusio del mondo. La sua fitta barbetta argentea e i vispi occhietti chiari erano tersi e vicini al sole come le cime del Gran Sasso. Questo celestiale vegliardo mi batté sulla spalla ed echeggiò: “Un tempo ce l’abbiamo avuto un democratico simile, e anche un eremita”.
“Scherzate pure” dissi incollerito, “io invece sono assolutamente serio”.
“Anch’io, caro signore !”, replicò con la sua voce fioca.
“Dimostratemelo!”.
“Immediatamente! Il democratico viveva nella nostra città, presso i francescani, e l’eremita ora vive a Santa Maria di Collemaggio. Volete far loro visita domani ? Allora prendete questo libercolo per stanotte!”.
San Bernardino e Pietro l’eremita!
Era una notte così silenziosa che si poteva sentire il mormorio dei ruscelli benedetti sulle montagne. Sedevo tra le due finestre della mia camera e continuavo a leggere alla luce venerabile di un antichissimo candeliere a tre bracci. Nessun’altra luce sarebbe stata più adatta a questa storia segnata dal tempo e alle immagini di quel glorioso passato, che con le sue frasi piane e favolose aveva ricreato nella mia camera da letto l’antica città abruzzese. A una finestra inseguivo ancora i miei sleali pensieri rivoluzionari, all’altra la mia disposizione ostile e la mia fuga dal mondo. E il giorno dopo mi inginocchiai risoluto in ossequio dinanzi alla tomba del democratico e, più tardi, davanti a quella dell’eremita.