I trecento opliti

Eccoli a portata di mano i trecento, tanti quanti gli opliti spartani che difesero alle Termopili la democrazia ateniese. Ma erano altri tempi. Rispetto ad alcuni anni fa sono più eleganti. Le cravatte invece lasciano a desiderare, ma è questione di gusti! Tra i corridoi del Parlamento ellenico, durante il dibattito sul voto di fiducia al governo Papadimos, si respira un’aria tesa, nonostante i sorrisi e le troppe parole, spesso pronunciate a vanvera. Visti da vicino, i trecento non danno l’impressione di essere i rappresentanti di un “popolo” che, credo, non riconoscono più. La parola “laos” (popolo) è sulla bocca di tutti, condita in tutte le salse: siano esse socialiste, liberali, comuniste, nazionaliste. “Il momento è grave!”, dicono, ma sono diciotto mesi che il momento è grave e sembrano accorgersene solo ora. O forse no! Mi sorge il dubbio, osservando i crocchi di deputati che borbottano. Le parole più gettonate? “Responsabilità”, “sovranità” “patria” “sacrifici”, “sobrietà”, “fallimento”, slogan che risultano fastidiosi all’orecchio in ragione del contesto in cui vengono inserite. Dovranno votare la fiducia al nuovo governo ma non si sono messi d’accordo sul come definirlo. Loro, i trecento, non sembrano offrire la sensazione di mettersi in “sospensione scettica di giudizio”.
“Stessa razza, stessa faccia, stessa troika”, scherza un deputato socialista appena mi presento come italiano. Bella battuta! Peccato che non risponda al vero, ma non vale la pena spiegarlo al mio interlocutore perché troppo preso a spiegarmi che “occorre sobrietà e responsabilità”. “Abbiamo commesso errori ma abbiamo salvato il Paese dalla bancarotta”, convinto lui! Poi mi parla della situazione italiana, a modo suo. “Italia e Grecia sono nella stessa situazione di crisi economica, dobbiamo tirarci su le maniche e lavorare per un futuro migliore”, questa analisi sottintende l’ipotesi del “mal comune mezzo gaudio”. Il mio interlocutore è un socialista, di quelli appartenenti allo “zoccolo duro” del partito, per intenderci è uno strenuo fautore delle corporazioni, dello statoimprenditore e ammette di aver voluto che si fosse tenuto il referendum.
Sul nuovo governo si esprime, facendo appello ad una untuosa retorica nazionalista. Lo voterà con convinzione per «senso di responsabilità». Da mezze parole emerge invece la sua preoccupazione per la sua base elettorale e le prossime elezioni di febbraio. Confida: «I miei elettori mi stanno abbandonando».
Percorrendo il corridoio che porta al bar, provo a fare una radiografia dei trecento. Ci sono i socialisti, andati al potere con questi due slogan «i soldi ci sono» e «socialismo o barbarie». Oggi hanno ammesso che i soldi non c’erano più e che il loro socialismo ha prodotto una nuova barbarie, che si sono ritrovati nella situazione di votare misure che hanno smantellato una buona percentuale dello stato sociale, ma che non hanno tassato i ricchi, né tantomeno aboliti i privilegi. Hanno abbandonato qualsiasi ideologia che fa riferimento alla giustizia sociale, ma non se ne rendono conto. Come si giustificano? «Sono i nostri creditori a imporre le regole». Il problema sono i sondaggi che li danno in caduta libera: significa che molti di loro non saranno eletti. Ci sono i neodemocratici, i quali pur, proclamandosi liberali, hanno sempre contrastato le misure di austerità, i tagli all'apparato statale e di smantellamento delle corporazioni. Ci sono i comunisti – quelli “duri e puri” – che hanno sempre adottato la politica del “tanto peggio tanto meglio”, che parlano di «plutocrazia», di «capitale», di «classe lavoratrice» e di «ritorno alla dracma». Sembrano usciti da un lungo periodo di ibernazione. Ci sono i nazionalisti, quelli che si richiamano alle radici ortodosse della società, capitanati da un leader che affermò, in Parlamento, di «non essere ebreo, né comunista, tantomeno omosessuale». Ci sono i radical-chic di sinistra capeggiati da un giovane arrogante e irresponsabile. Ci sono infine alcuni indipendenti coatti.
E infine ci sono le donne. Alcune di loro, le deputate socialiste, hanno avuto il coraggio di prendere pubblicamente le distanze dal primo ministro, invitandolo a farsi da parte. Poi alcuni colleghi maschi hanno seguito la scia. Le altre sempre e comunque più combattive e incisive.
Arrivato al bar incontro un giovane ex ministro del governo Karamanlis. Belle analisi le sue, ma nascondono un tono muscolare che assapora già la prossima vittoria elettorale del suo partito. Ricorda di aver tentato di privatizzare uno dei tanti carrozzoni statali ma i sindacati, con i socialisti alla testa, si sono messi di traverso. «Credo che in questo Paese nulla possa cambiare. Credo che siano così individualisti che non ci interessa nulla del nostro vicino e lo stato è percepito come un semplice datore di servizi gratuiti». «Come vedo il futuro? Il nostro partito quando andrà al governo porterà…..». Ci risiamo con la demagogia. Lo interrompo bruscamente. E' partito per la tangente e il suo cervello ha inserito la cassetta preregistrata per il prossimo comizio. Il futurolo aspetta. Da marzo dovrà far di conto perché nulla è cambiato, e non basta questa breve parentesi per disintossicare un corpo sociale allo stremo e alla rabbia.
Chi invece i conti li aveva fatti, è seduta in un angolo da sola. Già a novembre 2009 fa chiedeva al governo del compagno Papandreu di adottare misure di contenimento della spesa pubblica e di tagli agli sprechi. E chi la poteva ascoltare? I socialisti avevano appena vinto sostenendo che le casse erano piene e disposizione dei loro clientes. Ma la pecunia non c'era, e lo sapevano già in campagna elettorale, ma il capo doveva vincere per seguire le orme del padre e del nonno. E dove si sono ritrovati? Domanda retorica. Mi avvicino, mi presento, mi sorride. Niente virgolettati mi chiede. Il riassunto del colloquio: difficile salvarsi con questa classe politica, la dracma aspetta con pazienza le nostre decisioni e dieci anni di austerità non verranno accettati con leggerezza.
Chi invece ha le idee chiare è il comunista, quello della falce e martello, un comunista vero che Berlusconi odierebbe con ragione. La sua ricetta, o meglio la ricetta dettata dal Comitato Centrale del partito. «Uscita dall'euro, uscita dall'Unione Europea, lotta al capitalismo e alla plutocrazia, alla finanza internazionale, collettivizzazione dell'economia. Il popolo è stanco di pagare i debiti dei capitalisti». Ma basterebbe pagare le tasse per riequilibrare i conti, ribatto. «Ma quali tasse? Quella sulla casa non si dovrebbe pagare». Risposta insoddisfacente.
Non insisto, la mia attenzione è rivolta altrove. Sta passando l'ex primo ministro. Aria serafica, poca corte al seguito, viso disteso come se non fosse successo nulla negli ultimi mesi e negli ultimi giorni. In Parlamento ha spiegato che il referendum avrebbe dato la parola al popolo, ma non gli hanno permesso di indirlo. Sembrava convinto. La storia, è il caso in questione, ci dirà se la sua mossa è stato una mossa per stanare il suo avversario Samaras o una mossa disperata. Comunque andrà a finire è proprio vero le che istituzioni camminano sulle gambe delle persone.

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