IMPRESSIONI SULL’ANDAMENTO DELLA CULTURA IN CALABRIA… PARLA FRANCO DIONESALVI

Soprattutto su sponda anglosassone, si affermano analisi e modelli di analisi che saldano insieme la crisi economica, la manipolazione dei flussi informativi e il progressivo disincentivo ad operare in ambiti artistici e letterari. L’occasione è ghiotta per parlarne con Franco Dionesalvi, poeta e scrittore cosentino, già impegnato in attività di ricerca e insegnamento presso l’Università della Calabria e oggi autore di un fortunatissimo spazio sulla prima pagina del Quotidiano della Calabria. Ne esce fuori una conversazione netta e appassionata, dove l’Autore non manda a dire i suoi motivi di insoddisfazione, ricorda passati episodi e cerca di mettere a fuoco alcune proposte per il futuro.
1)Mi piacerebbe partire da un’osservazione di carattere generale, che a me pare indicativa di tanti fenomeni particolari. Anche gli operatori, nel settore delle arti e della cultura, per controbattere alle decennali politiche di tagli, sprechi, censure indirette e autocensure esplicite, dicono a mezza bocca “con la cultura, si crea lavoro, conviene investire in cultura”: il bisogno di esplicitarlo, e di mettersi subito sulla difensiva con questo solo argomento, mi pare figlio di un indebolimento irreversibile.
Condivido questa osservazione. Del resto è uno dei tanti effetti della “vittoria definitiva del capitalismo”, con tutte le conseguenze di diffusa e quotidiana infelicità che essa fa pagare a tutte le longitudini e le latitudini. Il fatto è che – ne parlo nel mio libro, quello sul diritto alla cultura e le politiche culturali – si insiste sempre più spesso sull’utilità delle politiche culturali ai fini dello “sviluppo del turismo”. Questo è già alzare bandiera bianca, è ridurre la cultura a una strategia di marketing. Invece la cultura ha a che fare con la costruzione della nostra identità, con la definizione del nostro ruolo nel mondo. E poi, con il riempimento di contenuto della parola “democrazia”, che altrimenti si riduce a una valenza soltanto formale. È la questione dell’esportazione della democrazia: si sottomette un popolo e si impone loro di fare le elezioni, pretendendo così di risolvere il problema. Ma una elezione non vale nulla, se non accade fra persone “consapevoli”, dunque informate e attrezzate per una partecipazione non pro-forma ma sostanziale, ai meccanismi della democrazia. Senza la realizzazione del diritto alla cultura, la democrazia non è possibile: è questo che dovrebbero urlare gli artisti, i registi e i musicisti quando protestano per i tagli alla cieca che subiscono le istituzioni culturali, e non che vanno sostenuti perché sono delle attrazioni che sollazzano i turisti.
Ciò detto, apprezzo l’occupazione del teatro Valle e quello che vi sta accadendo: una autogestione allargata a tante persone, che di fatto si risolve in una palestra formativa, in un esercizio di democrazia. In molti casi invece – e qui penso, in particolare, alle compagnie teatrali calabresi – l’accettazione di un principio per cui lo svolgimento di attività culturali è una concessione che fa il “padrone”, che può concedere o ritirare a suo arbitrio, è così forte, che ancora le cose si dicono a mezza voce, si parla in politichese pronti a rimangiarsi ogni critica; insomma si rinuncia a produrre una progettualità autonoma, si punta essenzialmente a vivacchiare strappando contributi qua e là.
2)Hai molto studiato l’andamento delle politiche culturali nella città di Cosenza. Hai potuto far tesoro di una straordinaria esperienza sul campo, durante la Giunta Mancini. Non tutto è oro tra quel che luccica, e nemmeno tra quello che viene dal passato, come non tutto quel che è dell’oggi deve indurre pessimismi. L’impressione, però, è che in Calabria l’indebolimento sia stato addirittura esiziale: le borse di studio, i bandi, i concorsi, letterari e non solo, sono ormai strutturati come ridottissimi, esangui, ammortizzatori sociali, per un pubblico ancora più ristretto e ancora più esangue. Che ne pensi? Suggestioni per invertire la rotta: sono ancora possibili?
In questi anni è avvenuto a Cosenza un curioso fenomeno di deprivazione di senso delle parole. Quel che è bizzarro è che le parole sono state mantenute. Si chiama ancora Casa delle Culture. Il fatto è che essa era, e lo è stata per alcuni anni, luogo di incrocio, di corto-circuito e di interazione fra culture diverse e distanti, spinte intanto a manifestarsi, ed esprimersi; e poi a trovare forme di confronto e di coesistenza. Attualmente è un edificio di stanze inutilizzate, e alcune da anni dismesse per infiltrazioni dal tetto mai riparate: insomma è rimasto solo il nome. Stessa cosa per la Festa delle Invasioni. Era il progetto di festival della città, imperniato su un convegno di portata internazionale, ogni anni dedicato a una materia diversa, e poi su un programma di spettacoli e performances artistiche ispirate dallo stesso convegno, e che invadevano la città a 360 gradi, veicolando il messaggio forte delle invasioni vissute non più come sottrazione ma come arricchimento. Già la giunta Catizone aveva iniziato a depotenziare il festival, puntando tutto sulla spettacolarità e poco sul senso, svalutando il convegno. Poi la giunta Perugini lo trasformò in una fiera in cui si facevano un po’ di concerti e a fianco si vendevano slip e salvagente. Infine la giunta Occhiuto lo ha reso una estate in città, dura un mese e mezzo e fa esibire i gruppi locali. Però è rimasto il nome, Invasioni. Fondamentalmente è stata buttata via una potenzialità forte che era stata costruita, per merito non di un singolo assessore ma di tanti gruppi, associazioni, studiosi della città che nel corso del tempo avevano costruito le premesse per una manifestazione annuale identitaria, provocatrice e gioiosa. Un patrimonio che è stato cancellato per grande superficialità.
Se poi allarghiamo il discorso alla Regione, il pressappochismo resta la nota caratterizzante. L’assessore regionale Principe si vantava di aver portato molti soldi nei capitoli sulla cultura: ma poi a che sono serviti questi soldi? Qualcuno ha controllato le percentuali di libri venduti in Calabria, di biglietti staccati nei teatri e nei cinema, di presenze nei musei? Sono nettamente le ultime in Italia, e non sono mai cambiate. Sembra che questa materia non si voglia prendere sul serio. Del resto, ancora trent’anni fa i capitoli cultura del bilancio servivano soltanto per finanziare le feste religiose e le vecchie biblioteche civiche: una progettualità seria, professionale, in Calabria non si è mai affermata, se non legata a singoli casi meritevoli. No, in questo settore non riesco a trovare note liete. Al di fuori dalla buona volontà e dalla passione culturale di gruppi di cittadini. È stimolante che ci siano librerie in cui quasi ogni giorno si presenta un libro, che sorgano dal basso gruppi musicali, case editrici. Tutto a totale insaputa degli assessori alla cultura degli enti locali.
3)Voglio chiederti di questa bella rubrica che ti sei inventato sul Quotidiano: il Sombrero. A me sembra stilisticamente eccezionale: è una difesa del senso comune dei non privilegiati contro i privilegiati, ma anche uno spazio di grande arguzia, sagacia, momenti di riflessione impegnativa. Più vignetta d’arte, che elzeviro. Come hai trovato questa cifra? Come resistere a pubblicazioni quotidiane, senza perder smalto?
Ti ringrazio di quanto dici a proposito della mia rubrica. A me interessava compiere una operazione letteraria prima che giornalistica. Pensavo a Sanguineti, ma soprattutto a Pasolini: dopo di lui un discorso civile in Italia fra gli scrittori non è riuscito a farlo più nessuno. La sfida poi è stata adattare questo intendimento alle esigenze grafiche del giornale. In pratica sono 580 caratteri, spazi inclusi. Ed io non volevo ridurre la cosa ad una battuta umoristica: volevo sviluppare un discorso, in cui l’ironia funga da richiamo, ma non sia fine a se stessa; serva piuttosto a far memorizzare al lettore un monito, un dubbio, un ripensamento. Quindi in tre frasi devo presentare una notizia, darle uno sviluppo, e risolverla con un effetto sorprendente. La sfida d’altra parte mi solleticava perché aveva a che fare con la poesia, che poi è il mio specifico. Come nella poesia, bisogna lavorare per sottrazione: ridurre le parole per accrescere il senso.
Poi i miei sombreri non sono tutti uguali: a volte prevale la critica politica, altre la riflessione, altre ancora l’informazione sui temi sociali che la stampa in genere ricaccia nelle ultime pagine. E qualche volta c’è una sollecitazione su temi “spirituali”. Devo dire che il Quotidiano mi ha lasciato grande libertà: in tre anni una sola volta il direttore mi ha chiesto di rivedere un po’ un sombrero. Mi scagliavo contro l’inutilità di un intervento militare italiano in un paese straniero.
4)In due occasioni pubbliche ho particolarmente apprezzato il tuo coraggio “solitario”… Vediamo di ricostruirle e di trarne un senso propositivo, al di là del caso specifico. Innanzitutto, hai preso posizione contro il costo smodato dei libri di testo. Alla tua denuncia di qualche anno addietro, si potrebbe facilmente replicare: i libri costano molto, si fotocopiano più che essere acquistati e chi lo fa si sente sempre meno in difetto, perciò costeranno sempre di più. È una spiegazione che sento dire in giro. Sono sincero: non mi convince del tutto. Riesce a convincere te?
In quell’occasione fui aggredito quasi fisicamente da un docente universitario che ha fama di essere “di sinistra”. Il fatto è che alcuni professori arrotondano facendo comprare i loro libri agli studenti; in passato ho sentito parlare addirittura di docenti che numerano le copie e le vogliono esibite dallo studente in sede di appello, per verificare che non se le passino di mano in mano. No, io penso che la cultura costituisca un patrimonio universale, da condividere; e che non sia accettabile una discriminazione sulla conoscenza in base alla ricchezza di cui si dispone. Questo vale per i libri come per gli spettacoli teatrali, per i concerti, e per internet. Vorrei insomma che la condivisione dei brani musicali in rete non venisse perseguita, ma legalizzata. Conosco l’obiezione: e il diritto d’autore, e come si paga la prestazione professionale agli autori? Se si vuole, non mi sembra complicato trovare la maniera di conciliare il diritto alla condivisione del sapere e dell’arte con il riconoscimento pubblico di compensi agli autori di opere che vengano scaricate da molti utenti.
5)In un’altra circostanza, hai difeso dei ragazzi della Curva Sud di Cosenza, additati ad autori di piccolo vandalismo perché avevano ornato la statua di un lupo con tanto di bella sciarpa rossoblu. Io e molti altri amici eravamo indignati per il clamore dato alla notizia: ma davvero in una città come Cosenza c’è tempo per pensare alle sciarpe sui lupi? Tu hai avuto uno sguardo più approfondito: quel gesto come riappropriazione di un bene comune, che non lo danneggia, anzi, lo rivivifica. Diresti lo stesso anche oggi?
Il problema del Museo all’Aperto di Cosenza è che sono opere di artisti importanti e di valore, alcune anche belle, ma del tutto decontestualizzate, calate dall’alto nella città. Diverso sarebbe stato se gli artisti fossero stati invitati a Cosenza, incaricati di creare per quel luogo. O almeno se l’opera, una volta arrivata, fosse stata adottata attraverso assemblee pubbliche, con i commercianti, con i residenti, in maniera da creare un circuito di ri-contestualizzazione. Non è avvenuto niente di tutto questo, e le opere continuano a sembrare lì per caso, come parcheggiate in attesa di essere portate altrove. Il fatto del lupo di Rotella a cui avevano messo la sciarpa rossoblù mi è sembrato il primo momento, spontaneo, di appropriazione di quei corpi estranei. Una maniera di legare l’opera al contesto, addirittura collegandola a una storia emozionale, a un senso tradizionale. Tutto ciò era molto bello, e non ho potuto non rilevarlo, anche se questo allora mi costrinse a contraddire una collega del Quotidiano. L’arte ha senso finché appartiene a un contesto di umani, finché è vissuta, è elemento di una comunità; altrimenti è roba da necropoli.
Domenico Bilotti

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